Il riverbero dell’atterraggio di Mario Draghi a palazzo Chigi si abbatte fragorosamente sulla maggioranza che sosteneva il governo Conte e, dopo l’implosione dei 5Stelle, colpisce al cuore il Pd con il colpo di scena delle dimissioni di Zingaretti.

Se in apparenza il suo gesto appare come un fulmine in un cielo nuvoloso, le parole usate dal segretario per motivare il passo indietro sono la più cruda, eloquente rappresentazione di cosa è oggi il gruppo dirigente del Nazareno. Ma anche della distanza siderale che lo separa dalla drammatica, tragica condizione del paese, dalle classi popolari che in teoria dovrebbe rappresentare.

Zingaretti non aggira i problemi e usa concetti e termini molto chiari: «guerriglia quotidiana», «vergognose polemiche sulle poltrone». Scoperchiando così cosa c’è sotto il tappetto di un unanimismo di facciata. Non solo: se questo «io non ci sto» fosse soltanto una mossa tattica per mettere con le spalle al muro i suoi oppositori e rilanciare la sua segretaria alla prossima assemblea nazionale, il prezzo di questo scoperchiamento è tuttavia molto salato.

È comunque uno spettacolo avvilente per il povero elettore del Pd già ridotto nei confini della Ztl, quella zona ristretta, a traffico limitato, delle grandi città. E lo è soprattutto in questo momento, con il governo Draghi che ha avuto l’effetto di ringalluzzire le destre, abili nel doppio gioco governo-opposizione.

E, più in generale, come oggettiva rappresentazione dello spostamento a destra dell’asse politico: per aver ridato fiato alle trombe di Salvini, Meloni e Berlusconi, oltreché per la sua spiccata natura tecnocratica, facendosi perfetto portatore d’acqua al mulino di chi fa della politica tutto un fascio.

Sotto il «testo» rivolto alla pubblica opinione, il messaggio di Draghi è evidente: vedete in che condizioni sono i partiti? Niente paura, ora ci siamo noi, i migliori, preparati e fedeli servitori dello Stato. Naturalmente, aderenti al famigerato slogan né di destra, né di sinistra.

Il marasma del Pd è il frutto genuino di quel che è stato capace di seminare in questi anni, il prodotto della lunga crisi precipitata dopo la disfatta elettorale del 2018, quando il Partito democratico riuscì nell’impresa di ridursi al suo minimo storico.

Ma la segreteria di Zingaretti ha funzionato più che come architrave di una ricostruzione, come un ombrello sotto cui ripararsi dalle macerie lasciate da Renzi. Uno di quegli ombrelli che però si rivoltano a ogni folata di vento: dal «mai con i 5Stelle» al governo con i pentastellati; dal «mai a un governo senza elezioni», a una coalizione di emergenza nazionale, a una ciambella lanciata al paese direttamente dalla catapulta del Quirinale.

Incerto, oscillante e subito azzoppato dalla scissione programmata dal prezzolato di Riyad che, per giunta, controllava i gruppi parlamentari. E, non fosse già abbastanza, alle prese con la strutturale degenerazione correntizia dei cacicchi locali, una corona di spine arricchita dalla new entry di Stefano Bonaccini, il leghista democratico che già gonfia il petto, dimentico del fatto che se non ci fossero state le sardine a fargli vincere la battaglia contro Salvini, sarebbe oggi uno dei vari consiglieri regionali.

Zingaretti ha fatto bene a dimettersi, anche se con una modalità discutibile, annunciando una così importante scelta su Facebook.

Ma avrebbe forse fatto anche meglio ad accettare subito la sfida del congresso mettendo al centro del campo la vexata questio dell’identità del Pd. Una identità minata alla radice fin dalla sua nascita ma clamorosamente venuta a galla con il plebiscito tributato a Renzi con le primarie del 2013 e poi con l’exploit delle elezioni europee del 2014.

Al contrario, aver allontanato il redde rationem, rinviandolo a dopo le elezioni amministrative, ha dato fiato all’infernale babele interna, costringendolo a difendersi dall’indecorosa guerriglia quotidiana, che giustamente denuncia come «vergognosa».

Anche perché sfidare i suoi oppositori su una discussione congressuale avrebbe portato allo scoperto i renziani, oggi ribattezzati «riformisti», contrapponendovi, ammesso e non concesso, una netta e decisa collocazione a sinistra, con conseguente ricaduta sulle alleanze. Un fianco evidentemente scoperto dei suoi contestatori che, finita la fanfaluca della vocazione maggioritaria e del bipartitismo immaginario, non si capisce quale alternativa metterebbero in campo rispetto alla maggioranza costruita con il governo Conte.

Sta di fatto che, con il disfacimento verticale e orizzontale grillino e lo scontro di vertice del Pd, si può dire a ragion veduta che sotto il cielo del centrosinistra è grande il disordine, ma la situazione non è eccellente.

Per niente.