«È una delle questioni che mi tormenta di più: fino a che punto si può spostare l’asticella e dove invece va tenuta ferma» spiega Zerocalcare al telefono.

Il senso della sua nuova serie Questo mondo non mi renderà cattivo, lanciata oggi su Netflix, è racchiuso qui, nel confronto con una realtà sempre più distante dai propri ideali e desideri, che bisogna comprendere senza giudicare, ma neppure uniformandosi al clima discriminatorio e opprimente.

Un esercizio quotidiano da equilibristi che Zerocalcare rende, come sempre, divertente e accessibile ai più.

Dopo il successo di Strappare lungo i bordi, rispetto alla quale la continuità è data anche dalla presenza di Valerio Mastandrea come doppiatore del «doppio» Armadillo, Michele Rech prende di petto la retorica della destra al potere e ne mostra le radici coltivate a base di guerre tra poveri nelle periferie.

Analizzando il fenomeno da punti di vista diversi e a volte contraddittori. Come quello di Cesare, un amico ex tossico che dopo anni in comunità si ritrova spaesato. Da simili riflessioni – che assumono le sembianze accattivanti dei «disegnetti», della Roma periferica, degli amici di una vita e delle battute sul gelato – può nascere una lettura meno consolatoria di alcuni fenomeni sociali. Materiale utile per preparare una controffensiva, che sia anche culturale.

Michele Rech Zerocalcare

La prima scena mostra un poster che parla di sostituzione etnica, oggi quello slogan è arrivato al governo attraverso le parole di Lollobrigida. Che effetto fa?

Sembra fatto apposta, se non si conoscessero i tempi necessari per l’animazione si potrebbe pensare a una citazione. La questione della sostituzione etnica, però, è agitata da tempo dalle destre più estreme e da chi sta ora al governo. Solo che prima non finiva sulle prime pagine dei giornali. Solo un paio di anni fa, nell’assoluta indifferenza, alla fiera dell’editoria Più libri più liberi veniva presentato un libro sul piano Kalergi, quello sulla presunta sostituzione degli europei da parte degli africani. Quindi questi sviluppi non mi sorprendono molto.

Il titolo della serie, oltre a rimandare a una canzone del cantautore folk Path, fa subito pensare a Claudio Caligari e a «Non essere cattivo». Si è ispirato a quel film?

Non posso dire di essermi ispirato perché sarebbe offensivo per lui, ma credo che Non essere cattivo sia il film italiano più bello degli ultimi dieci anni. Sicuramente è uno dei pochissimi che racconta la periferia in un modo che mi convince: Caligari è commovente ma senza retorica. Le mie ispirazioni non sono quasi mai di tipo cinematografico, guardo tante cose ma non sono in grado di riutilizzarle.

La vicenda di «Tor Sta Ceppa» si riferisce a quella di Tiburtino III, dove nel 2017 gli antifascisti hanno impedito che si svolgesse un consiglio comunale straordinario chiesto da Casapound su presunti problemi derivati da un centro di accoglienza?

Quello è solo uno dei quartieri dove sono successe cose di questo tipo. Negli ultimi anni a Roma fatti analoghi hanno avuto luogo a Tor Sapienza, Torre Maura, Guidonia, Primavalle, Casalbruciato. Ho preso elementi da tutti questi episodi e li ho fusi in uno che fosse paradigmatico, aggiungendo poi vicende personali come quella di Cesare che racchiude tante persone incontrate nella mia vita.

Una scena della serie

Nelle sue ultime produzioni il tema del lavoro è sempre più presente. Ed emergono molti compromessi che questa dimensione costringe ad accettare. C’è una critica a modelli e ritmi che la società impone?

Io sono un tossico del lavoro, una comunità per questo problema non l’hanno ancora inventata! Come qualcun altro colma le proprie mancanze con le sostanze, io le colmo così. E non è detto che questo non produca effetti altrettanto devastanti sia sul pianeta sia su chi incrocia la mia vita. C’è quindi una critica anche a me stesso, al meccanismo in cui mi sono infilato e che in forme diverse stritola un po’ tutti. Io però ne vengo stritolato da privilegiato, faccio un lavoro retribuito moltissimo rispetto a tante persone che faticano le stesse ore e comunque non arrivano a fine mese. Questo modo di vivere ci viene ormai prospettato fino a un’età così avanzata in cui non si potrà fare altro. Bisogna rimettere in discussione per cosa vale la pena campare. Qualcuno lo sta facendo in altre parti d’Europa. Sulla questione compromessi tendo a essere sempre critico verso me stesso e quelli come me e indulgente con gli altri. Voglio dire: quando si è sotto ricatto perché non si hanno i soldi per vivere io quei compromessi li giustifico, quando invece questa necessità non c’è penso che bisogna riflettere molto su quello che si accetta di fare.

A proposito di questo, c’è un passaggio in cui arriva quasi a legittimare chi assume una posizione ambigua rispetto alle rivendicazioni dei fascisti. C’è poi l’intervento provvidenziale di Secco a rimettere la questione a posto. Non sarebbe stato un po’ troppo arrivare a convalidare quelle idee razziste?

Chiaramente sì, ma non penso di essere io nella posizione di poter fare lezioni su quali compromessi si possano fare e quali no. Sono molto fortunato a essere cresciuto con persone con grande dignità che l’asticella non l’hanno messa con le parole ma con l’esempio della loro generosità. Quindi credo sia più interessante raccontare quelle vite per interrogarci su fino a dove ci si può spingere piuttosto che farmi io «maestrino» e dire alle persone come campare.

Tramite Netflix il suo pubblico si è molto ampliato, qual è il riferimento quando scrive?

Non penso mai a un pubblico, cerco di fare le cose nella maniera più diretta possibile rispetto a come mi vengono. Il compito che mi do è di non lasciare indietro nessuno ovvero che la vicenda principale sia seguibile da tutti, anche a costo di fare «spiegoni» che possono risultare macchinosi. Poi ci sono dei livelli accessibili solo a chi ha la mia età, si ricorda determinati cartoni etc, ma non mi faccio troppi problemi su questo. Certo, magari alcuni passaggi sono un po’ crudi per ragazzi proprio piccoli, c’è stata una grande discussione interna su questo episodio, avvenuto realmente, in cui Cesare racconta il suo sogno, ma non volevo toglierla perché era molto significativa sui rapporti tra maschi in quel momento.

Ha scelto di mantenere il doppiaggio fatto da lei nonostante le polemiche scatenate dalla serie precedente, mentre la colonna sonora stavolta include brani decisamente più pop e mainstream. Conseguenza di un budget maggiore?

Sì, abbiamo avuto più possibilità e quindi non dovevo calibrare ogni pezzo, le canzoni sono praticamente quelle che mi ero immaginato all’inizio. Non mi sono mai posto il problema di modificare il doppiaggio per le critiche però alla fine della prima serie il meccanismo si rompeva, si capiva che tutto era un racconto a me stesso e questo giustificava la scelta. Dovevo quindi trovare un nuovo escamotage ed è il fatto che la vicenda è riportata dal mio personaggio in un commissariato. La vera sfida comunque è stata realizzare una narrazione lunga e non solo episodica, narrare una storia con puntate di 25 minuti non è semplice e la mia paura è che si faccia fatica a seguire, ma tutta la squadra dei movimenti, storyboardisti e aiuto registi, hanno colmato molte mie lacune sul linguaggio cinematografico.

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È un lavoro maggiormente collettivo rispetto ai fumetti?

Lì faccio tutto da solo, non c’è nessuna squadra, mentre qui c’è in primis nella realizzazione tecnica e, anche se la scrittura è tutta opera mia, la maniera in cui è raccontata è decisamente collettiva. Ad esempio nella scena finale della seconda puntata, che amo molto, c’è un montaggio alternato tra la scena di Euridice e la vicenda Cesare: io non avevo proprio gli strumenti per realizzarla, l’avevo immaginata molto più piatta.

Il cameo di Silvio Orlando come è nato?

Lo abbiamo incontrato in treno, ha detto che gli era piaciuta molto la prima serie e quindi gli abbiamo chiesto di doppiare un personaggio… ho modificato le battute di quel poliziotto per cucirle proprio addosso a lui.