Youmna El Sayed è uno dei volti più noti del panorama mediatico arabo. La giornalista palestinese-egiziana, corrispondente di al Jazeera, ha raccontato in diretta per mesi l’offensiva israeliana contro Gaza. Ieri ha ricevuto a Napoli il premio Pimentel Fonseca durante il Festival «Imbavagliati».

L’attuale offensiva israeliana ha raggiunto livelli senza precedenti, possibilmente genocidiari. Che differenza c’è con le precedenti?

Fin dal primo giorno i raid aerei sono stati indiscriminati. Hanno preso di mira gli edifici residenziali e la popolazione civile di Gaza. Noi giornalisti ci siamo trovati sotto il fuoco diretto. In passato avevamo assistito al bombardamento delle sedi dei media, in ogni guerra Israele ha preso di mira i giornalisti, anche in zone aperte quando coprivamo le proteste al confine (durante la Grande Marcia del ritorno, ndr). Non rappresentavamo alcun pericolo, eravamo lontani dalla barriera di separazione, eppure i cecchini ci hanno sparato proiettili, granate, lacrimogeni. Ma stavolta la minaccia è diversa: prendono di mira anche le nostre case e le nostre famiglie. Dal primo giorno indossare l’elmetto e il giubbotto con scritto «Press» si è trasformato in un rischio per la vita.

Documentate crimini di guerra ogni giorno al prezzo della vita: oltre 130 reporter sono stati uccisi. Che significa essere giornalista a Gaza?

È diverso da esserlo in qualsiasi altra parte del mondo perché non ci sono leggi, non c’è diritto umanitario, non ci sono convenzioni dell’Onu che possano proteggerci. Il nostro lavoro è cambiato: dal coprire atrocità e crimini di guerra contro dei civili al trovarci nella posizione di raccontare noi stessi, la nostra terra, i nostri colleghi, i nostri cari. Combattiamo le stesse battaglie di ogni altro palestinese: siamo sfollati, siamo costretti a cercare cibo e acqua, a vivere senza elettricità. Lo facciamo comunque perché è un dovere morale ed etico mostrare al mondo intero cosa sta accadendo a Gaza, visto che ai giornalisti internazionali è impedito l’ingresso. Se non lo facessimo, il mondo non saprebbe nulla del genocidio a cui è sottoposta la popolazione di Gaza.

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Come si riesce a documentare un simile livello di distruzione, morte e fame? Cosa porterà con sé?

È stato molto difficile a livello umano raccontare della propria famiglia, dei vicini di casa, degli amici, delle strade in cui sei cresciuta, dei tuoi figli che non riesci a sfamare. Sono stata sfollata cinque volte dall’inizio dell’offensiva, con i miei figli e mio marito. Non è facile restare in equilibrio tra il lavoro professionale di giornalista e le storie che ti colpiscono come donna, come reporter, come madre, come amica. La nostra anima è piena di cicatrici, non so come riusciremo a curarle. Ho lasciato Gaza da due mesi e fino a poco fa non ero in grado di raccontare cosa avevo visto. Non riesco a liberarmene. E non importa se il futuro sarà migliore per me e per la mia famiglia, non potrò mai dimenticare. Non dimenticherò che i miei figli avevano sete e non c’era abbastanza acqua, che avevano fame e non c’era cibo.

Molti media occidentali considerano i giornalisti palestinesi non attendibili. Perché?

In occidente si pensa che i giornalisti palestinesi debbano per forza essere affiliati a un qualche gruppo e dunque non possano essere oggettivi. È ridicolo. Sono sicura che tanti altri giornalisti internazionali non riuscirebbero a lavorare in queste condizioni per sette mesi, raccontare della propria terra e del proprio popolo, testimoniare distruzione e pulizia etnica in modo completamente imparziale. Come giornalista devi avere la capacità di indagare ogni singola storia. Quando i giornalisti stranieri entrano a Gaza, lo fanno con l’aiuto di un fixer palestinese, di un traduttore palestinese. Parlano con funzionari palestinesi e con la popolazione palestinese. Quelle sono considerate storie credibili, ma le nostre no. Poi guardi alla copertura internazionale e vedi che riportano una sola narrazione, un solo lato della storia, quella israeliana.

Quanto è importante usare il vocabolario corretto e spiegare il contesto storico di un colonialismo d’insediamento lungo 75 anni?

Usare la terminologia giusta è fondamentale come giornalista, il nostro lavoro è riportare i fatti. È questione di integrità. Non si può parlare del conflitto israelo-palestinese come un conflitto bilanciato, uguale, come fosse cominciato con l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Esiste una forza occupante e un’occupazione che dura da 75 anni, durante i quali il popolo palestinese è stato sfollato continuamente. In Cisgiordania ogni area è sotto il controllo israeliano, lo stesso Gerusalemme. A Gaza l’assedio dura da 17 anni, con 2,3 milioni di persone che vivono in una prigione a cielo aperto. Niente è iniziato il 7 ottobre. I palestinesi vivono sotto oppressione costante, con i propri legittimi diritti negati, il diritto al movimento, alla salute, al lavoro. È una storia vecchia 75 anni, durante i quali i palestinesi sono uccisi in ogni singola guerra, in ogni singola escalation.

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Dall’Afghanistan all’Ucraina fino al Messico, a Napoli il nono festival «Imbavagliati»

Si è aperto ieri a Napoli e si concluderà il nono festival internazionale di giornalismo civile «Imbavagliati», ideato e diretto da Désirée Klain. Dal titolo «Io ho visto-Strumenti di pace», il festival è quest’anno dedicato ai giornalisti palestinesi uccisi dall’offensiva israeliana contro Gaza. Non a caso l’immagine scelta per lanciare la tre giorni è una foto (pubblicata in basso) scattata da Abed Zagout, fotoreporter gazawi oggi in esilio in Egitto, vincitore dell’Impact Awards 2023 e del Red Cross Photography Award nel 2008.

È stata invece Youmna El Sayed, corrispondente da Gaza di Al Jazeera, a ricevere il Premio Pimetel Fonseca, consegnato da Lucia Goracci, inviata della Rai in Medio Oriente. Ma non c’è solo la Palestina: oltre alla giornalista campana sotto scorta Marilena Natale e al coordinatore di Articolo 21 Giuseppe Giulietti, intervengono tra gli altri la reporter messicana Kena A. Megan, l’ucraina Zhanna Zukova, gli afghani Farzana Jadid e Najeeb Farzad. Sarà reso omaggio a Mario Paciolla, ucciso in Colombia nel 2020.