Sono passati otto anni da quando Julian Assange ha varcato i cancelli dell’ambasciata ecuadoregna di Londra per sfuggire all’arresto delle autorità inglesi e il rischio di una estradizione negli Stati Uniti dove lo attende, come rivelato recentemente, una accusa di attentato alla sicurezza nazionale per la diffusione da parte di Wikileaks di materiali coperti da segreto militare o industriale: accusa che lo renderebbe un dead man walking.

Quella che doveva essere una soluzione transitoria per una situazione politica e giuridica assai complicata è diventata, nel corso del tempo, una detenzione light in una situazione extraterritoriale di un personaggio simbolo del mediattivismo on line per gran parte degli anni Novanta.

Assange le ha provate tutte per trovare dignitose vie di fuga, ma ogni volta si è trovato al punto di partenza, mentre la sua immagine si è macchiata di compromessi, mediazioni al ribasso, trattative poche chiare con i potenti di turno, dal poco democratico Putin ai falchi alt-right dell’amministrazione di Donald Trump.

Una parabola, quella del fondatore di Wikileaks che ha però altri e più significativi risvolti e riguarda proprio il mediattivismo di Wikleaks e di altri gruppi “militanti” in Rete.

Da quando è stato fondato, Wikileaks si è subito collocato conflittualmente in quella promettente terra rigogliosa, per le imprese, che è la produzione di opinione pubblica. La “fabbrica del consenso” funziona ancora a pieno regime con i media tradizionali, mentre con la Rete ha visto accrescere ruolo e funzioni nel consolidare un sistema di potere tutto a favore delle imprese capitaliste. Da una parte produce senso, consenso, definisce e ratifica appunto i rapporti di potere nelle società; dall’altra è un sofisticato processo produttivo che ha come materia prima e mezzi di produzione sentimenti, affettività, un elevato livello di innovazione (sociale e tecnologica) e un numero variabile di knowledge worker e lavoro gratuito (chi tagga inconsapevolmente le foto, chi commenta i post, chi apposta like come se piovesse. Wikileaks ha provato a inserirsi nei nodi di questa rete produttiva, finendo però ad essere stritolato dalla pretesa, tutta liberale, che la trasparenza fosse amica del bene e nemica dei potenti di turno.

Quel che in questi anni si è consolidato è un funzionante dispositivo per la cooptazione da parte dei commons barons di molte istanze del mediattivismo incentrato sulla convinzione che la massima trasparenza dell’informazione si traducesse nel vecchio sogno liberale di una società dove l’accesso all’informazione significasse automaticamente lo svelamento e il superamento del capitalismo in quanto sisteam dominante.

Wikileaks nasce dunque con l’obiettivo di svelare le forme di controllo sociale esercitato dai media mainstream, facendo leva, almeno nella fase iniziale, sulle pratiche di anonimato e di criptografia per garantire un riparo dai tanti, mille piccoli grandi fratelli che scorrazzano in Rete, cioè quei famigerati synopticon., singoli nodi della rete che si ttivano proprio per controllare e fare propri i comportamenti compatibili con il business dell’opinione pubblica

L’inseguimento del miraggio di una trasparenza radicale ha favorito, nel tempo, le collaborazioni con i media tradizionali, l’adesione a incerti e non sempre controllabili criteri “professionali”, fino al paradosso che ormai la massima trasparenza è ormai prerogativa di social network e social media. Facebook, Twitter, siti informativi incentranti sul giornalismo investigativo svolgono infatti un lavoro “trasparente” di tutto rispetto, anche se lontano anni luce dalla possibilità che questo significhi la costruzione di una società realmente democratica.

La sconfitta del mediattivismo à là Wikileaks, ma non solo, sta dunque in un giro di tornante dove non è operativo il classico meccanismo di cooptazione e riassorbimento da parte capitalistica di istanze radicale e sovversive, né è vigente l’appropriazione privata di dinamiche collettive e sociali di innovazione sociale, culturale, produttiva, anche se c’è anche questo, inutile negarlo. Quel che è accaduto è la definizione alla manifestazione di una infosfera pervasiva dove la produzione di opinione pubblica non passa solo nell’indirizzare il flusso dei dati in determinante direzioni, ma nell’affermarsi di aspetti “immateriali” come i meme, le ciacole, le battute, il verosimile, insomma il mondo della postverità. Allo stesso tempo, ma questa è una realtà che presente novità quotidiane, è che la cyberwar tra stati, imprese, gruppi militari vede all’opera “legioni” di smanettoni arruolati in servio temporaneo da parte degli stessi paeesi che vogliono influenza la vita politica e sociale dei paesei “nemici”. L’attitudine di questi gruppi di agitatori mercenari o semplicemente nazionalisti non differisce – e questo costringe a ripensare la dmensione militante – da quell’attitudine hacker che ha da sempre contraddistinto il mediattivismo à-la Wikileaks.

La reazione militante a questa situazione c’è comunque stata. Gruppi militanti hanno cominciato a lavorare sui meme, sulle cosiddettte Shit Storm, provando a definire possibili meccanismi virtuosi di ribaltamento di senso per rompere l’egemonia reazionaria della postverità. Siamo però solo all’inizio e la strada è in salita.

Nel mondo del mediattivismo viene spesso ripetuto il mantra che bisognerebbe fare come hanno fatto i neoliberisti. Costruire con pazienza le istituzioni politico mediatiche di una nuova egemonia. C’è un piccolo problema, decisamente e rimosso. La Mont Perlin Society, cioè il think tank neoliberista per eccellenza ha avuto un flusso continuo e congruo di finanziamenti che consentivano di poter pagare studiosi, ricercatori conservatore senza aspettarsi risultati immediati. Insomma erano, quelli di Mont Perlin, investimenti a lungo termine. Difficile immaginare una situazione simile per il mediattivismo e i gruppi militanti on line.

La sconfitta, meglio il lento ritirarsi del mediattivismo nei golfi protetti del già noto non significa però che tutto è perduto. Semmai invita a fare i conti con una realtà dove la Rete può essere considerato come un dispositivo psicosociale nel quale la tecnica sta acquisendo un potere performativo che non può essere disgiunto dai processi di valorizzazione capitalistica. E dunque di come funziona la produzione della ricchezza, cioè quale è il ruolo del lavoro vivo, la sua sua articolazione, frammentazione, capacità di innovazione. Questa la leva per fare forza e prendere congedo dal clima mesto di un uomo che tristemente vede il mondo da una finestra di una ambasciata.