Le preannunciate contro-ritorsioni Usa a seguito della riduzione di oltre 700 funzionari e impiegati del personale diplomatico americano in Russia, imposta a luglio da Putin, stanno infine arrivando.

Ieri il Dipartimento di Stato ha ordinato a Mosca la chiusura entro il 2 settembre del consolato di San Francisco e di altre due strutture consolari a Washington e New York.

Alla Russia resterebbe di fatto solo l’ambasciata di Washington, senza più strutture sulla costa del Pacifico e con una sovraccumulazione di funzioni politiche, commerciali e consolari a Washington. Il dicastero Usa, inoltre, ha voluto aggiungere «che la parità diplomatica con la Russia non è stata ancora raggiunta» e di essere pronto a prendere altre misure.

Non si tratta della prima misura successiva alla sanzione russa contro il corpo diplomatico americano. La scorsa settimana gli Stati uniti avevano annunciato che a partire dal 1 settembre i cittadini russi che intenderanno recarsi negli Usa dovranno attendere almeno sette mesi il visto d’ingresso.

Una misura che aveva innervosito Mosca, che però – forse in attesa di ulteriori misure americane – aveva dimostrato una certa cautela: la portavoce del Ministero degli Esteri Marija Zacharova aveva affermato che «per quanto la misura sia punitiva, la Russia non intende prendere misure analoghe nei confronti dei cittadini Usa».

Tuttavia la Russia non sembra a questo punto disposta a inghiottire due rospi in un colpo solo. Dopo essere stato informato dal segretario di Stato Rex Tillerson della decisione americana, Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo, «ha espresso rammarico per l’escalation della tensione nei rapporti bilaterali, che non è stato avviata da noi» e ha segnalato che Mosca «studierà attentamente le nuove misure annunciate dagli americani e dopo di che deciderà quali ulteriori misure prendere».

Lo scontro sul futuro assetto dell’Ucraina con le nuove sanzioni americane contro Mosca (mal digerite a Bruxelles) del luglio scorso hanno innescato un scontro diplomatico di cui oggi sembra difficile vedere una tregua.

Dopo che la scorsa settimana James Mattis, capo del dipartimento della Difesa, è volato a Kiev portando in dono al regime di Poroshenko – in attesa della fornitura di caccia e droni – un antipasto di 1,750 milioni di dollari di attrezzature militari, di ieri è la notizia che gli Stati uniti hanno inviato un primo carico di carbone in Ucraina nell’ambito dell’accordo commerciale tra la società di Kiev Centrenergo e la compagnia americana XCoal Energy and Resources.

Ovviamente non si tratta solo di business, ma piuttosto di una strategia dell’amministrazione Usa volta a usare le esportazioni americane di materie prime per limitare l’influenza energetica russa nell’area slava.

Strategia confermata da una dichiarazione del segretario americano all’Energia Rick Perry: «Negli anni recenti Kiev e buona parte dell’Europa orientale sono state dipendenti dalla Russia per riscaldarsi. Questo ora cambierà. Gli Stati uniti possono offrire un’alternativa all’Ucraina».

Che gli Usa intendano colmare il vuoto con il carbone, può stupire solo chi non ha preso sul serio il ritiro di Trump dai protocolli sul clima di Parigi.

L’Ucraina, non potendo più contare sui prezzi sussidiari nelle forniture di gas e petrolio russo come ai tempi di Janukovich e non potendo più attingere ai bacini carboniferi del Donbass, controllati dalle Repubbliche ribelli indipendentiste dal 2014, si trova a fare i conti con una crisi energetica pesantissima.

Di poche settimane fa è il decreto della Rada con cui si riduce il fabbisogno minimo per unità abitativa di riscaldamento sotto lo standard europeo.