Boris Johnson è sopravvissuto al voto di sfiducia, anche se di stretta misura, come ampiamente preconizzato. Dopo un rapido spoglio, la conta dei voti ha dato 211 a favore e 148 contro su 359 deputati. Secondo le regole, è ora al sicuro da altre analoghe minacce almeno per un altro anno. Resta dunque dov’è, ma per lui ora è tutto in salita: il passato mostra come in genere – è accaduto a Theresa May nel 2018 – un primo ministro scampato alla sfiducia si ritrovi politicamente zoppo, e nel giro di un anno è probabile che cada.

LE PROTESTE DI IERI contro Johnson davanti a Westminster riportavano al clima pre-Brexit, sintomatiche come i fischi ricevuti durante il giubileo. I pronostici lo davano capace di superare l’ostacolo. Gli servivano almeno 180 voti, una semplice maggioranza. Il responso è stato letto in serata dallo stesso Brady dalla “Committee room 14”, vasta sala ottocentesca di Westminster progettata da Augustus Putin (che con Vladimir, ci assicurano, non ha nulla a che fare).

È il «partygate» che torna, puntuale e terribile. Ancora non ci si era ripresi dalle libagioni giubilari – quattro giorni che ad alcuni sono parsi durare più dei settant’anni di regno che celebravano – che sonora, ieri mattina, già cadeva la prima tegola sul capo di “Boris”. Le lettere di sfiducia nei suoi confronti pervenute al comitato conservatore preposto all’elezione del leader del partito avevano raggiunto il quorum del 15%. E il leader di detto comitato, Graham Brady, annunciava che la votazione – segreta – sul destino del premier avrebbe avuto luogo già ieri sera.

NELLE ORE POMERIDIANE c’è stato un turbinio lobbistico da parte del governo e dello stesso Johnson per indurre i recalcitranti colleghi a sostenerlo. Sul suo capo, lo ricordiamo, tuttora pesano svariate violazioni al codice ministeriale da lui stesso fissato circa la recente cattività virale. Mentre il resto del paese osservava l’autosegregazione al punto di non poter nemmeno salutare i propri morti, lui e il suo staff si producevano in vari ritrovi a Downing Street irrorati di alcol e cotillon alla faccia del distanziamento sociale, in alcuni dei quali si è bevuto fino a vomitare e ci si è anche menati, tanto per smentire voci di eccessivo unanimismo.

I SOSTENITORI DI JOHNSON avevano agitato in faccia ai frondisti lo stramaledetto acronimo thatcheriano There Is No Alternative, e hanno avuto ragione. La distanza fra la popolarità del premier e il drappello di mezze figure di cui si è cautelativamente attorniato al governo è immensa. Nessuno può sostituirlo pensando anche vagamente di avere lo stesso appeal. Non il riccastro ministro delle Finanze Rishi Sunak, bruciato dal costo della vita (soprattutto il suo, elevatissimo); non la ministra degli Esteri Liz Truss, più guerrafondaia del Pentagono, ma poco altro.

L’ex fedelissimo di Theresa May, Jeremy Hunt? Un esiliato dal potere che maschera la propria revanche carrieristica con l’indignazione morale. E lo sapeva fin troppo bene lo stesso premier che, evidentemente stufo di contrattempi che non lo lasciano lavorare, riferendosi alle feste e alle bugie dichiarava sprezzantemente ieri al Times che «lo avrebbe rifatto»: un atteggiamento ben diverso dalle piagnucolose scuse profferte ripetutamente in parlamento le scorse settimane.

L’EMERGENZA PERENNE in cui è ormai bloccato il mondo intero fra Armageddon in Ucraina, inflazione stratosferica e economia sputacchiante suggeriva ai realisti di tenersi un bugiardo che vince le elezioni piuttosto che un sincero che le perde. In effetti, quello contro di lui non era certo un golpe orchestrato. È stato piuttosto lo stillicidio incessante di rivelazioni – una dopo e peggio dell’altra, nonostante i tentativi di contenimento del problema da parte della stessa polizia – ad aver sdegnato gli sdegnati. Molti dei quali non riuscivano a salvare la faccia davanti ai propri elettori.

Johnson sapeva bene che questa ordalia andava affrontata, e superata. Per questo ha deciso di effettuare lo scrutinio subito, già ieri, in modo da poter tornare al lavoro in santa pace. C’è la Nato da cavalcare, l’economia da far crescere esponenzialmente, la transizione verde da capitanare. Anche se la sua leadership resta in pericolo. Il partito è bellamente spaccato. Il prossimo 23 giugno si terranno le by-elections di Wakefield e Tiverton and Honiton, dove paventa una sonora suonata.