Un motivo stonato risuona mentre scorrono i fotogrammi del film L’incanto di Chiara Caterina, presentato in concorso alla Settimana della critica della Mostra del cinema di Venezia. Ed è proprio come un motivo stonato che potremmo definire il mondo che appare sullo schermo. Vediamo immagini che ci sono assolutamente familiari: palazzi, tralicci della corrente, alberi, nuvole, il mare perfino. Ma questi paesaggi, naturali o artificiali che siano, sono gravidi di un messaggio sinistro e ambiguo. L’incanto è un lavoro connesso senza dubbio a Sei ancora tu, corto di Caterina presentato al Festival di Pesaro lo scorso giugno. Dal loro accoppiamento emerge una cifra stilistica personale, risultato delle riprese in pellicola e dalla scelta di mostrare anche i limiti esterni del fotogramma, con tanto di perforazioni. Le immagini interrogano, sembrano racchiudere un enigma antico anche se nel film precedente al centro c’erano i corpi che qui sono quasi completamente assenti.

SONO INFATTI le voci fuori campo a condurci in un universo tutto femminile all’insegna dello sconfinamento: dai canoni percettivi, dalla legge, dall’equilibrio psichico. Lentamente cogliamo alcuni riferimenti. Insieme alle altre di cui non conosciamo la storia, a parlare ci sono Rosa Bazzi, tuttora in carcere per aver commesso la strage di Erba insieme al marito Olindo e Donatella Colasanti, sopravvissuta al massacro del Circeo. Si tratta di due punti di vista completamente opposti: da un lato una feroce carnefice, che non esitò ad uccidere i propri vicini di casa, compreso un bambino; dall’altro una vittima inequivocabile, costretta a subire torture e sevizie e a sperare nella sopravvivenza in quel tremendo bagagliaio accanto al cadavere dell’amica. Eppure le altre voci che ascoltiamo ci raccontano di una zona grigia che accomuna le due donne. Una zona dove la morte è prossima, abita nella casa e si percepisce nell’atmosfera. Entrambe hanno superato un confine, che pure non è nascosto ma al contrario è ben presente nei paesaggi filmati da Caterina interamente in 16 mm. È una realtà inquietante, percorsa da un fremito che sembra voler spiegare come sia possibile una violenza gratuita e talmente efferata. Poi ci sono le voci maschili: quella di Enzo Biagi e di un magistrato, le loro domande vogliono ricostruire la verità, riportare all’ordine, dare un senso a quanto accaduto. Loro probabilmente non percepiscono questo incanto, inteso come risultato di un incantesimo; si ritengono spettatori esterni, saldi nella loro razionalità, osservatori di un fenomeno incomprensibile.
Sul finire del film alcuni brani di conversazioni su Lucifero e la giustizia, ma la frase che più colpisce è: «Nessuna delle cose che faccio riesce a salvarmi». Vengono alla mente le numerose immagini di lavori di costruzione che abbiamo visto, le riprese della città, le strade e le auto.

È COME se l’essere umano avesse sempre provato a sfuggire da questo maleficio modificando l’ambiente intorno a sé, dandosi da fare disperatamente. Si è illuso di riuscirci ma poi questo richiamo emerge, improvvisamente ed immancabilmente, da qualche parte. Il lavoro di Caterina non vuole dare risposte ma con la potenza del suo sguardo ci lascia pensosi, consapevoli di aver sfiorato la superficie di una voragine. Non rimuoverla ma provare ad osservarla di traverso non può che giovarci.