Un’orchidea lilla all’occhiello della giacca e uno sguardo molto stanco. Così si presenta al nostro incontro Michael Henry Adams, autore dell’articolo The End of Black Harlem, uscito su newyorktimes.com il 27 maggio 2016.

Mentre ci sediamo nel dehors di Maison Harlem, Adams -scrittore, storico e attivista- mi racconta del perché 30 anni fa abbia deciso di trasferirsi a Harlem: “Non so guidare, sono nero e gay. Quale altro posto sarebbe stato adatto a me se non questo?”. Quando poi gli chiedo qual è il suo più bel ricordo dei primi anni a Harlem, gli occhi gli si illuminano per un attimo, mentre mi spiega come, una volta arrivato nel quartiere, rimase stupito della facilità con cui fosse possibile scoprire il passato. “Non solo gli edifici e i vecchi cartelloni pubblicitari mi parlavano della storia, erano le stesse persone a volermi raccontare della loro giovinezza qui”.

Probabilmente è proprio questa forte presenza del passato, insieme alla sua precisa identità culturale, ad aver fatto di Harlem un luogo così speciale e unico al mondo.

“Il vero problema”, mi spiega Adams, “non è il colore dei nuovi residenti di Harlem, ma il fatto che l’amministrazione cittadina stia ridisegnando il quartiere in base alle loro esigenze”. Negli ultimi anni il ritmo della gentrificazione è accelerato, perché quelli che Adams definisce dei ‘rifugiati economici’, ovvero i bianchi in fuga da zone diventate troppo care, cercano sempre di più di ricreare un ambiente che sia in tutto e per tutto simile a quello che hanno lasciato. “Non amano la diversità, non sono interessati alla cultura locale, vogliono solo sentirsi a casa”, commenta triste Adams.

Lo storico locale Smalls Paradise, dove i camerieri un tempo ballavano il charleston e consegnavano le ordinazioni sui pattini, è stato chiuso nel 1986; al suo posto oggi si trova un ristorante della multinazionale International House of Pancakes. St. Nick’s Pub, magico ritrovo per ascoltare jazz, ha chiuso i battenti nel 2011. Il Renaissance Theater and Casino, pietra miliare di Harlem dove si esibì persino Duke Ellington, è stato abbattuto nel 2014 per volere dei nuovi proprietari. Lo stesso destino, quello della demolizione, è toccato alla Childs Memorial Temple Church of God in Christ, dove nel 1965 vennero celebrati i funerali di Malcom X.

Ironicamente, mi spiega Adams, persino lo Studio Museum di Harlem, in teoria consacrato all’arte contemporanea afroamericana, è in realtà un ulteriore esempio di gentrificazione. “La costruzione della sua nuova sede è stata affidata a un architetto britannico, con il risultato che la struttura stona con l’ambiente circostante, è del tutto sradicata. Questo perché l’unico contenuto che si vuole preservare della cultura di Harlem è quello a misura di turista”.

Lo stesso senso di impotenza attraversa gli occhi di Paul Deo, il pittore e street artist autore del murale Planet Harlem. Con indosso dei pantaloni che sembrano una tela di Pollock, quando lo interrogo mentre è intento a ritoccare l’opera arrampicato su una balaustra, l’artista mi racconta come i negozi più piccoli e i jazz club stiano chiudendo uno dopo l’altro sotto il peso di affitti sempre più cari. Nella Harlem di oggi, mi spiega Paul Deo, inizia a mancare un’arte che sia popolare e autentica. “Ci sono ancora espressioni artistiche, ma la maggior parte non sono autoctone e mancano di purezza”.

L’eredità nera del quartiere sembra un peso di cui molti vogliono liberarsi. E la situazione è rimasta immutata con l’amministrazione del democratico Bill de Blasio. È Adams a spiegarmi come l’attuale sindaco sia un sostenitore della teoria del trickle-down, secondo la quale i benefici economici e fiscali elargiti alle classi abbienti finiscono per giovare, a cascata, anche ai ceti medi e poveri.

“Per de Blasio, costruire nuovi complessi residenziali di lusso dovrebbe consentire all’amministrazione cittadina, attraverso i profitti ottenuti, di creare anche alloggi a buon mercato ”, precisa Adams. Ma questa tesi economica non sembra applicarsi nella realtà, che di fatto vede i cittadini più poveri, spesso neri, essere costretti a lasciare il luogo dove hanno sempre vissuto. Attorno alle residenze di lusso infatti, sorgono supermercati, ristoranti e negozi che sono alla portata soltanto degli ultimi arrivati bianchi. “I poveri sono letteralmente sovrastati da questa nuova ricchezza”.

Naturalmente la gentrificazione è un fenomeno a carattere globale, non limitato ad Harlem. Basti pensare all’area est di Parigi, che un tempo era la più povera della città e che ora vede una costante crescita del costo della vita; o a quartieri di Milano come Tortona, ex-area industriale oggi mecca del design e della vita notturna; o ancora al sempre più inaccessibile Mission District di San Francisco, tradizionalmente abitato dagli immigrati dell’America Latina e del Sud America.

Tuttavia a Harlem il processo di gentrificazione rappresenta una minaccia particolarmente temibile. “Per oltre un secolo questa parte di New York è stata considerata a livello internazionale la capitale della cultura afroamericana. Attualmente sta attraversando un processo di radicale trasformazione e distruzione. Questo significa che un pezzo importante del patrimonio culturale e storico dell’umanità rischia di andare perduto per sempre”, continua Adams.

Secondo lo scrittore inoltre, a Harlem la gentrificazione è inscindibilmente legata alla questione razziale: “Fino agli anni ’80 la città possedeva buona parte delle abitazioni di Harlem e agli affittuari neri non era consentito comprare, perché molto raramente avevano accesso a un mutuo. Oggi in qualche modo la storia si ripete: i prezzi di mercato consentono l’acquisto solo ai cittadini più ricchi, che nella stragrande maggioranza dei casi sono bianchi”.

Per Adams sarebbe possibile intervenire in modo concreto per salvare il patrimonio culturale di Harlem. “Innanzitutto, l’amministrazione dovrebbe introdurre un sistema di controllo degli affitti e preservare gli edifici storici del quartiere, riconoscendoli ufficialmente come monumenti. Ma sembra non esserci alcun interesse da parte della città ad intervenire con misure di questo tipo”.

Allo spirito e alla coscienza di Harlem Paul Deo dedica un vero e proprio altare con l’opera davanti alla quale lo intervisto. Il murale contiene tutte le icone della storia di questo quartiere: da Martin Luther King a Nina Simone, da Clayton Powell a Tupac, da Louis Amstrong a Billie Holiday. “La mia idea è condividere l’energia di queste personalità con chiunque si fermi ad osservarle” afferma Paul Deo, che aggiunge: “Quando realizzo le mie opere però, ormai penso sempre alla possibilità che un giorno vengano distrutte. Mi è già successo a Park Slope, Brooklyn, quando i proprietari del palazzo dove avevo creato un murale hanno deciso di vendere. Anche qui a Harlem potrebbe accadere”. Persino Planet Harlem, questo ultimo e sfavillante santuario della cultura nera, per sopravvivere dovrà piacere ai nuovi abitanti del quartiere.