Il Quantitative easing non sembra ancora essere derubricato dall’agenda della Banca centrale europea per consolidare l’attuale congiuntura.

Mario Draghi ha recentemente affermato che la politica monetaria sarà «paziente, tenace e prudente».

Cresce l’ottimismo a Francoforte, ma non viene meno l’attenzione su potenziali incertezze e turbolenze. I capricci borsistici delle scorse settimane o le crescenti dichiarazioni di guerre commerciali sono solo due degli esempi dei possibili fattori destabilizzanti sul piano internazionale.

Perciò la Bce lascia intendere che le iniezioni di liquidità, per quanto in formato ridotto, proseguiranno fino al raggiungimento di standard inflazionistici adeguati. Standard che non appaiono dietro l’angolo, considerate le spinte deflazionistiche dell’economia contemporanea, e che rendono ancora necessario uno scudo protettivo, specie per i paesi più fragili. Tra questi naturalmente c’è l’Italia, che cresce meno dei suoi partner e che allo stesso tempo costituisce uno dei paesi sufficientemente grandi da rappresentare ancora un problema per tutti.

A fronte della ripresina in corso il suo debito sovrano appare in via di stabilizzazione, seppur continui a crescere in termini assoluti (gennaio record con 2280 miliardi), e le incertezze politiche per ora sembrano preoccupare poco.

Che cosa ci suggerisce di stare tranquilli sui nostri conti pubblici? Il debito pubblico dalla crisi del 2011 è passato in prevalenza in mani autoctone, i titoli posseduti da investitori stranieri costituiscono solo il 34% del totale, mentre prima del 2008 erano superiori al 50%.

La durata media è piuttosto lunga, circa 7 anni, , ma soprattutto il costo del debito è andato decisamente riducendosi negli ultimi quattro anni, fino a raggiungere l’odierno modestissimo tasso di 0,54%. Percentuale probabilmente destinata a crescere, ma non in maniera preoccupante, almeno in tempi ravvicinati. La composizione dei creditori non solo si è rinazionalizzata, ma ad aumentarne il possesso sono state soprattutto banche, assicurazioni e Banca d’Italia, cioè quegli attori istituzionali fortemente incentivati proprio dall’azione della Bce. Operazione salvataggio centrata dunque.

Il problema è che i punti di forza di tale operazione di salvataggio potrebbero trasformarsi in debolezze per il futuro. Le regole e soprattutto le convenzioni, infatti, stanno cambiando. La percezione che un eccesso di titoli di Stato in pancia alle banche possa costituire un fattore che incrina la solidità degli istituti va diffondendosi.

Il rimedio comincia a esser percepito come un male in potenza. La proposta di calcolare i titoli sovrani tanto rischiosi quanto quelli del credito bancario presuppone l’intenzione di considerare il debito sovrano al pari del debito privato.

Il profilo del sistema bancario italiano, dopo essersi faticosamente normalizzato, ricadrebbe in un quadro di debolezza strutturale. L’incentivo a vendere i titoli pubblici posseduti crescerebbe, se tale processo poi coincidesse con la fine del Quantitative easing allora la necessità di trovare nuovi acquirenti per i titoli sovrani aumenterebbe in maniera preoccupante, facendone prevedibilmente aumentare il prezzo. Insomma si sta giocando la partita della ripresa economica e ogni attore (in particolare i paesi principali e le loro economie di scala) gioca le sue carte per prevenire nuovi focolai di crisi e consolidare il proprio quadro.

Ognuno valorizza i propri meriti e punta il dito sulle debolezze altrui. Secondo i precetti dominanti, l’Italia in questi anni, non ha approfittato della parentesi data dall’interventismo monetario e ora rischia di continuare a galleggiare facendo i conti con una logorante quanto infinita austerità per contenere il proprio debito. Continueremo a viaggiare con il pilota automatico, anche senza un governo, anzi non è neppure urgente averne uno. I mercati confermano stando tranquilli. Per ora.