Pubblichiamo questo articolo di Yanis Varoufakis, in edicola sul numero di marzo di Le Monde diplomatique/il manifesto in edicola dal 14 a 2 euro più il prezzo del quotidiano.

La crisi finanziaria globale del 2008 – il 1929 della nostra generazione – ha innescato una reazione a catena in tutta Europa.

All’inizio del 2010, aveva già minato le fondamenta dell’eurozona, portando i membri dell’establishment a rompere le proprie regole per tirar fuori dai guai i loro amici banchieri. Nel 2013, l’ideologia neoliberista che fino ad allora aveva legittimato la tecnocrazia oligarchica dell’Unione europea, dopo aver ridotto in miseria milioni di persone, si è trovata in grave difficoltà. E questo per la mera applicazione delle politiche ufficiali: il socialismo per i finanzieri e un’austerità implacabile per i più. Queste politiche sono state condotte sia dai conservatori che dai socialdemocratici.

Nell’estate del 2015, la capitolazione del governo di Syriza in Grecia ha avuto l’effetto di dividere e demoralizzare la sinistra, annientando l’effimera speranza che dei progressisti emersi dalle strade e dalle piazze potessero modificare i rapporti di forza in Europa.

Da allora la collera, esacerbata dalla disperazione, ha lasciato un vuoto, rapidamente riempito da un’estremità all’altra dell’Europa dalla misantropia organizzata di un’Internazionale nazionalista molto apprezzata dal presidente statunitense Donald Trump.

Appesantita da una classe dirigente che ricorda sempre più la sfortunata repubblica di Weimar e dal razzismo alimentato dalle forze deflazionistiche, l’Unione si sta spaccando.

La cancelliera tedesca sta per terminare il suo mandato e il progetto europeo del presidente francese sembra essere nato morto. Le elezioni del parlamento europeo del prossimo maggio sono l’ultima occasione per i progressisti di pesare a livello paneuropeo.

Dalla sua nascita, nel 2016, il Movimento per la democrazia in Europa 2025 (DiEm25) si è dato l’obiettivo di cogliere questa opportunità (Ndr: l’anno 2025 corrisponde alla scadenza che il movimento si è dato per «dar vita a un’Europa pienamente democratica e funzionale»).

Per prima cosa abbiamo preparato il nostro programma, il «New Deal per l’Europa». Abbiamo poi invitato altri movimenti e partiti ad arricchirlo e a dar vita con noi alla nostra Primavera europea, la prima lista transnazionale di candidati che sostengono un programma comune su scala europea.

Come premessa alla discussione di questo progetto, la sinistra deve affrontare frontalmente due temi brucianti che la dividono e che indeboliscono i progressisti un po’ dappertutto nel continente: il problema delle frontiere e la questione dell’Unione.

Negli ultimi anni è successa una cosa singolare: molti cittadini di sinistra sono stati spinti a pensare che le frontiere aperte siano nocive per la classe operaia. «Non sono mai stato a favore della libertà di stabilimento», ha dichiarato più volte Jean-Luc Mélenchon (La France insoumise). Intervenendo al parlamento europeo nel luglio del 2016 sulla questione dei lavoratori distaccati, ha dichiarato che ogni volta che uno di questi arriva «ruba il pane ai lavoratori che si trovano sul posto». In seguito si è pentito di queste affermazioni, ma la sua analisi degli effetti delle migrazioni sui salari domestici non è cambiata.

Questo dibattito non è nuovo.

Nel 1907, Morris Hillquit, il fondatore del Partito socialista d’America, ha presentato una risoluzione per porre fine all’«importazione deliberata di manodopera straniera a basso costo» sostenendo che «i migranti costitui[vano] senza esserne consapevoli un giacimento di crumiri».

La novità di oggi è che gran parte della sinistra sembra aver dimenticato l’acuta critica di Lenin, formulata nel 1915 in questi termini: «Pensiamo che non si possa essere internazionalisti e allo stesso tempo favorevoli a tali restrizioni… Simili socialisti sono in realtà sciovinisti.»

In un articolo datato 29 ottobre 1913, Lenin aveva fornito il contesto di questo dibattito: «Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna di popoli. (…) Il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il modo (…) distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi.»

La vita della maggioranza dei cittadini può essere migliorata nel quadro delle regole esistenti

Il movimento DiEm25 riprende l’analisi di Lenin: le barriere che ostacolano la libera circolazione delle persone e delle merci sono una risposta reazionaria al capitalismo. La risposta socialista consiste nell’abbattere i muri, nel permettere al capitalismo di autodistruggersi mentre noi organizziamo la resistenza transnazionale allo sfruttamento.

Non sono i migranti a rubare i posti di lavoro dei lavoratori locali, ma le politiche di austerity dei governi, che si inscrivono in una lotta di classe condotta a beneficio della borghesia nazionale.

Questo è il motivo per cui non permetteremo che una forma di xenofobia «light» contamini il nostro programma.

Come ha detto Slavoj Žižek, il nazionalismo di sinistra non è una buona risposta al nazionalsocialismo. La nostra posizione sui nuovi immigrati si basa su due punti: ci rifiutiamo di distinguere tra migranti economici e rifugiati e chiediamo all’Europa di lasciarli entrare (#LetThemIn).

I compagni di molti paesi ci considerano degli utopisti. A loro avviso, Bruxelles non è riformabile. Anche se fosse vero, la migliore risposta dei progressisti sarebbe forse lavorare per la «Lexit», organizzando cioè una campagna di sinistra che abbia come obiettivo una disgregazione controllata dell’Unione?

Ho un ricordo commosso dei miei interventi in Germania, in sale piene fino a esplodere, all’indomani della capitolazione di Syriza di fronte ad Angela Merkel e alla «troika». Le persone presenti spiegavano che le decisioni riguardanti la Grecia non erano state prese in loro nome, in nome del popolo tedesco.

Ricordo di quanto fossero stati sollevati nell’apprendere che DiEm25 aveva proposto la creazione di un movimento transnazionale per assumere il controllo delle istituzioni dell’Unione – Banca europea per gli investimenti (Bei) e Banca centrale europea (Bce) – e riorganizzarle nell’interesse di tutti i cittadini.

Ho ancora in mente la gioia dei nostri compagni tedeschi quando è stata sottoposta loro l’idea di presentare alle elezioni europee dei candidati greci in Germania e dei candidati tedeschi in Grecia.

Si trattava di dimostrare che il nostro movimento è transnazionale e che intende appropriarsi qui e ora delle istituzioni dell’ordine neoliberista. Non per distruggerle, ma metterle al servizio della maggioranza dei cittadini a Bruxelles, a Berlino, ad Atene e a Parigi. Ovunque.

Ora immaginate, al contrario, come si sarebbero sentiti se avessi tenuto il seguente discorso: «L’Unione non è riformabile e deve essere sciolta. Noi greci dobbiamo ripiegare sul nostro Stato-nazione e cercare di costruire il socialismo nel nostro paese. Spetta a voi fare lo stesso qui in Germania. Poi, quando avremo vinto, le nostre delegazioni si incontreranno per discutere la collaborazione tra i nostri nuovi Stati sovrani progressisti.» Senza ombra di dubbio, i nostri compagni tedeschi avrebbero perso ogni slancio e sarebbero tornati a casa demoralizzati alla prospettiva di affrontare l’establishment tedesco come tedeschi e non come membri di un movimento transnazionale.

Se la mia analisi è corretta, poco importa che l’Unione sia riformabile o meno. Ciò che conta è presentare proposte concrete su quello che intendiamo fare delle istituzioni europee.

Non proposte stravaganti o utopiche, ma descrizioni dettagliate delle iniziative che attueremo in settimana, il mese successivo e nel corso dell’anno, nel quadro delle normative vigenti e con gli strumenti esistenti.

Per esempio, come ridefiniremo il ruolo del cosiddetto Meccanismo europeo di stabilità (Mes), come riorienteremo la politica di «allentamento quantitativo» (quantitative easing) della Bce, come finanzieremo, immediatamente e senza introdurre nuove tasse, la transizione ecologica o una campagna di lotta alla povertà.

Perché proporre un programma così dettagliato? Per mostrare agli elettori che esistono delle soluzioni, anche all’interno delle regole stabilite per servire gli interessi del 1 % che sta meglio.

Naturalmente, nessuno – men che meno noi – si aspetta che le istituzioni dell’Unione accettino favorevolmente le nostre proposte. Quello che vogliamo è che gli elettori vedano cosa si potrebbe fare al posto di ciò che viene fatto, così che possano smascherare la classe dirigente senza orientarsi verso la destra xenofoba. Questo è l’unico modo, per la sinistra, di superare i suoi limiti attuali e di costruire un’ampia coalizione progressista.

Il «New Deal per l’Europa» ha esattamente questo obiettivo: dimostrare che la vita della maggioranza dei cittadini può essere migliorata a brevissimo termine nel quadro delle regole e delle istituzioni esistenti; delineare i contorni della trasformazione di queste istituzioni, mettendo in atto un processo costituente che, nel lungo periodo, porterà a un’Assemblea europea democratica chiamata a sostituire i trattati esistenti.

Infine, bisognerà far vedere come i meccanismi che metteremmo in atto fin dal primo giorno potrebbero aiutarci a raccogliere i pezzi se, nonostante i nostri sforzi, l’Unione dovesse disintegrarsi.

Sono in molti a parlare dell’importanza della transizione ecologica. Ma nessuno dice da dove verrà il denaro né chi stabilirà come usarlo. La nostra risposta è chiara: tra il 2019 e il 2023, l’Europa ha bisogno di investire 2.000 miliardi di euro in tecnologie verdi, energia verde, ecc. Noi proponiamo che la Bei emetta per quattro anni un volume di bond supplementari pari a 500 miliardi di euro.

Allo stesso tempo, la Bce dovrà annunciare che, se il loro valore crollasse, li riacquisterebbe sul mercato secondario dei titoli obbligazionari. Tenuto conto di questo annuncio e della sovrabbondanza di risparmi in tutto il mondo, la Bce non dovrà sborsare neanche un euro, poiché tutti i suoi titoli saranno immediatamente sottoscritti.

Sul modello dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece) – antenata dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) – creata nel 1948 per distribuire gli stanziamenti del piano Marshall, una nuova Agenzia europea per la transizione ecologica canalizzerà questi fondi verso progetti verdi su tutto il continente.

Va osservato che questa proposta non richiede alcuna nuova tassa, si appoggia su titoli obbligazionari europei già esistente (ad esempio i bond della Bei) ed è del tutto legale in base alle norme vigenti. Lo stesso vale per altre proposte del nostro «New Deal» relative alle misure da attuare immediatamente.

Ad esempio, il nostro fondo anti-povertà. Noi proponiamo che i miliardi di utili del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), in particolare i profitti derivanti dai titoli acquistati nel contesto dell’allentamento quantitativo, siano utilizzati per garantire a ogni cittadino cibo, un tetto e la sicurezza energetica.

Un altro esempio: il nostro piano per ristrutturare il debito pubblico dell’eurozona. La Bce dovrà fare da mediatrice tra i mercati finanziari e gli Stati per ridurre il peso della totalità del loro debito senza stampare denaro e senza che la Germania paghi di tasca sua o sia costretta a garantire il debito pubblico dei paesi più indebitati.

Come dimostrano questi esempi, il nostro «New Deal» combina misure che richiedono un’alta competenza tecnica, applicabili nel quadro esistente dell’Unione, e una rottura radicale con l’austerity e con la logica del «salvataggio» imposto dalla funesta «troika».

Inoltre, esso prevede delle istituzioni che preparino il terreno per un futuro europeo postcapitalista. È il caso ad esempio di una proposta di socializzazione parziale del capitale e dei profitti derivanti dall’automazione: il diritto delle grandi imprese di operare nell’Unione sarà subordinato al trasferimento di una percentuale dei loro utili in un nuovo Fondo azionario europeo. I dividendi di queste azioni finanzieranno poi un reddito di base universale versato a tutti, indipendentemente da altre prestazioni sociali, sussidi di disoccupazione, ecc.

L’unità della sinistra è cruciale, ma non si deve ottenere a scapito della coerenza

Un altro esempio della radicalità delle nostre proposte: la riforma dell’euro.

Prima di impantanarci nei cambiamenti da apportare agli statuti della Bce, noi prevediamo di creare una piattaforma di pagamento digitale pubblica garantita da quelle dei servizi fiscali di ciascun paese dell’eurozona. I contribuenti avranno così la possibilità di acquistare dei crediti fiscali digitali utilizzabili per effettuare delle transazioni tra loro o per pagare le imposte godendo di consistenti sgravi fiscali.

Questi crediti saranno denominati in euro e potranno essere trasferiti solo tra i contribuenti di uno stesso paese, cosa che impedirà brusche fughe di capitali.

Allo stesso tempo, i governi potranno creare una quantità limitata di questi euro fiscali per destinarli ai cittadini bisognosi o per finanziare progetti pubblici. Gli euro fiscali permetterebbero ai governi sotto pressione di stimolare la domanda, di diminuire il loro debito, di ridurre l’onnipotenza della Bce e di evitare il costo di un’uscita dall’euro o della sua disintegrazione.

Nel lungo termine, queste piattaforme di pagamento digitali pubbliche potrebbero costituire un sistema regolamentato di euro specifici per ciascun paese, che funzionerebbe come una camera di compensazione internazionale. Sarebbe di fatto una versione modernizzata del sistema di Bretton Woods così come era stato immaginato da John Maynard Keynes nel 1944, sistema che purtroppo non è mai divenuto realtà.

Per riassumere, il nostro «New Deal per l’Europa» è un progetto globale per:

  1. riorganizzare intelligentemente le istituzioni esistenti nell’interesse della maggioranza,
  2. pianificare un futuro postcapitalista, radicale e verde,
  3. essere pronti a raccogliere i pezzi se l’Unione europea dovesse collassare.

La sinistra ha due nemici: la mancanza di unità e l’incoerenza. L’unità è cruciale, ma non si deve ottenere a scapito della coerenza. Prendiamo, ad esempio, lo stato del Partito della sinistra europea. Come possono i suoi membri chiedere il voto degli elettori il prossimo maggio, quando in Grecia è rappresentato da un partito che, al governo, sta attuando il programma di austerity più brutale nella storia del capitalismo e in paesi come la Francia e la Germania molti dei suoi dirigenti sono euroscettici?

Degli amici di sinistra ben intenzionati ci chiedono perché DiEm25 non si allea con La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e, in Germania, con il movimento Aufstehen (In piedi) di Sahra Wagenknecht e di Oskar Lafontaine.

La ragione è semplice: perché il nostro dovere è costruire l’unità sulla base di un umanesimo radicale, razionale e internazionalista. Questo significa un programma radicale comune per tutti gli europei e una politica a favore di un’Europa aperta, che consideri le frontiere come delle cicatrici sul pianeta e dia il benvenuto ai nuovi arrivati. Su questa base minima non si può transigere.

Il nostro appello all’unità si fondava su un’idea semplice: DiEm25 invitava tutti i progressisti a essere coautori del nostro «New Deal per l’Europa».

L’appello è stato ascoltato. Génération·s (Francia), Razem (Insieme, Polonia), Alternativet (Danimarca), Democrazia e autonomia (Italia), MeRa25 (Grecia), Demokratie in Europa (Germania), Der Wandel (Il cambiamento, Austria), Actúa (Spagna), Livre (Libero, Portogallo) si sono uniti a noi.

Altri sono sul punto di farlo. Insieme abbiamo costituito la coalizione della Primavera europea, che presenterà i suoi candidati alle elezioni del prossimo maggio.

Il nostro messaggio all’establishment autoritario europeo è il seguente: vi resisteremo attraverso un programma radicale più sofisticato del vostro sul piano tecnico. Il nostro messaggio agli xenofobi fascistoidi: vi combatteremo dappertutto.

Il nostro messaggio ai compagni dalla sinistra europea, di La France insoumise, ecc.: da noi potete aspettarvi una ferma solidarietà, nella speranza che un giorno le nostre strade convergeranno al servizio di un umanesimo radicale e transnazionale.

* Yanis Varoufakis, economista, è stato ministro delle finanze greco tra il gennaio e il luglio del 2015. Fondatore del Movimento per la democrazia in Europa 2025 (DiEm25)