Il Venezuela fa parlare di sé. La crisi economica rilancia il paese latinoamericano sui media, riproducendo la polarizzazione pro/contro dei tempi di Chavez, ed incentrandosi soprattuto sulla acutizzazione politica, sulle violenze di strada e il presunto irrigidimento autoritario del presidente Maduro.

Più rare sono le analisi che cercano di vedere in modo più concreto e rigoroso quali siano le dinamiche puramente economiche e le cause sottostanti.

Pochi possono escludere che siano presenti tanto errori e disfunzioni nella gestione del governo (un fattore interno) quanto una componente esterna, sia nell’indebolimento dell’asse dei «governi amici» (con ormai le destre al potere in Brasile e Argentina) che nel (poco benevolo) interessamento degli Stati uniti. Ma bastano per spiegare tutto?

I fattori che saltano all’occhio sono la caduta della crescita del Pil e la crescita dell’inflazione: il primo passa da + 4,1% (2011) a +5,6% (2012), +1,3% (2013), -3,8% (2014), -6,2% (2015), -18% (2016). La seconda da parte sua dà valori che spaziano dal 18%-21% dell’era Chavez procede verso il 254% del 2015 e 720% del 2016. Cifre preoccupanti.

Per spiegare questa progressione sono significativi il documento preparato da Edgardo Lander, sociologo venuezuelano, per il gruppo di lavoro della Fondazione Rosa Luxemburg per la regione andina e l’analisi dell’economista Oly Millàn Campos, ex mimistra del governo bolivariano, sulla natura del debito venezuelano.

Tali analisi mostrano come l’emancipazione sociale si sia fondata sul mantenimento e sul rafforzamento della rendita petrolifera. L’ «oro nero» costituisce la maggiore risorsa del paese, il principale prodotto di esportazione (arrivato fino al 96% di essa) nonché la maggior fonte di entrate per lo Stato.

Non modificare tale assetto «estrattivista» (la principale critica dei movimenti a tutti i governi progressisti latinoamericani) ha reso l’economia del paese fragile e vulnerabile a fronte dei mercati internazionali. I beni di consumo, non venendo prodotti all’interno, debbono essere importati; si vede il rafforzamento dell’import di beni di consumo nel periodo in cui il prezzo del petrolio era maggiore (passato da 100 dollari a barile nel 2013 a 24,24 dollari nel 2016), mentre nel periodo successivo c’è un crollo.

L’espansione del ruolo dello Stato nella redistribuzione della manna degli anni dopo, ha visto dei livelli di produzione industriale stabili o addirittura calanti.

La necessità di importare i generi alimentari di prima necessità e la loro distribuzione a prezzi calmierati è strettamente collegata alla crescita dell’inflazione che sta affossando il paese; accanto ai due tassi di cambio ufficiali (differenziati a seconda del bene cui si riferiscono) si è affiancato un mercato nero di dimensioni inusitate, visto che buona parte della popolazione è costretta a ricorrervi per sopperire alle proprie necessità. Nonostante tutto il rumore dei media mainstream su un collettivismo fuori controllo, è stato calcolato che il settore privato sull’insieme dell’economia è cresciuto dal 65% al 71%, fra cui il sistema di distribuzione di base su cui il governo deve appoggiarsi, in cui si generano ogni genere di speculazione e maneggi, con la complicità di vasti settori della burocrazia pubblica, affetta da una corruzione diffusa che Chavez aveva aggirato affidando i più importanti interventi sociali (le famose missioni) a corpi paralleli.

Una parte della strategia del governo, a parte la denuncia di complotti e oscure manovre (affermazioni che certo hanno una certa base reale) è stata quella di fare accordi con parte dell’oligarchia e con aziende estere per lanciare un estrattivismo di carattere minerario, prospettando concessioni a multinazionali su un suolo pari a circa il 12% del territorio della Repubblica. È presumibilmente per tali ragioni che è leggibile la prospettiva di stretta osservanza degli impegni finanziari internazionali.

La situazione dei conti pubblici è assolutamente stabile, con un debito pubblico estremamente basso (36,7% sul Pil nel 2016, in calo rispetto al 49,9% del 2015!) e un debito delle famiglie fra i più bassi del mondo. Eppure il vicepresidente del ministero dell’economia ha annunciato che verranno ridotte le importazioni di generi di consumo per far fronte al debito (riducendole a un quarto rispetto al 2012), e il presidente Maduro ha annunciato che il paese aveva pagato negli ultimi 20 mesi 35 miliardi ai creditori internazionali.

È una prospettiva vivacemente contrastata da forze popolari, in specie il Comitato per una Auditoria pubblica e civica (affiliato alla rete Cadtm), che propone una indagine sistematica dei meccanismi finanziari e valutari che generano fughe di capitali e illegittimità debitorie, non solo per recuperare risorse a fare maggiore trasparenza ma per ridare una solidità etica al tessuto sociale del paese, già sottoposto a forte dissoluzione. Se l’iniziativa di Maduro su una nuova costituente ha delle possibilità di incisività positiva, non può che farsi carico di proposte come queste che possono ravvivare un forte protagonismo popolare, emancipativo e realmente socialista.

* (Cadtm Italia)