Varda è una cineasta della Nouvelle Vague. Ma c’è nel cinema di Varda una libertà e un’immaginazione che la Nouvelle Vague non aveva. Come mai? Due ragioni. La prima è che Varda non veniva né dal cinema né dalla cinefilia ma dalla fotografia. La seconda è che era una donna. Ce n’è una terza: Varda non ha aspettato il terzo film per essere sé stessa. È entrata nel cinema con i propri gusti, con le proprie idee, con le proprie stravaganze. E come donna. Già nei suoi primi corti questa libertà è manifesta e piena di sé.

Non è poco, perché il corto è in un certo senso più difficile del lungo metraggio. Si tratta di trovare un ritmo e un contenuto adatti alla forma breve, senza scimmiottare la forma lunga. L’Opéra-Mouffe (1958) ci riesce perfettamente.
La rue Mouffetard è una strada popolare della vecchia Parigi, quella parte della capitale che è sopravvissuta agli sfondamenti haussmaniani, conservando la pianta dell’antica città medievale. È situata nel ventre della città. Ecco che la prima immagine di Opéra-Mouffe è proprio il ventre, bello e rotondo, di una donna in stato di gravidanza. Nell’inquadratura successiva, in primissimo piano c’è una grande zucca. Due mani si sporgono a prenderla, un coltello la taglia a metà: siamo al mercato della rue Mouffetard. Le mani strappano dal centro della zucca i suoi semi. Ora è pronta per essere esposta e venduta.

COSA PENSARE di questo montaggio che dall’astrattezza di un’immagine su fondo nero ci porta nel mezzo d’una strada formicolante di attività? Il ventre è (come) una zucca? Il feto è (come) un seme? E che dire delle mani che li estirpano? È una difesa del diritto della donna a decidere del proprio corpo? Oppure, al contrario, l’idea che il corpo della donna è violato e venduto come al mercato? Ognuna di queste ipotesi dice troppo o troppo poco. Certo Varda porta nel cinema le sue idee e la propria sensibilità – che sappiamo essere con fermezza femminista.

Nei suoi film migliori porta soprattutto un modo di fare cinema che non serve mai una semplice zuppa ideologica. Anche in L’une chante, l’autre pas (1977), dove il femminismo sarà più esplicito, conterà sempre soprattutto lo sguardo più che il discorso. Sguardo che va direttamente alle cose, osservandone la forma senza pregiudizi, come fosse per la prima volta. E che nel cinema non mette alcuna necessità nel nesso tra un’inquadratura e l’altra. È quindi uno sguardo il più possibile rivolto alla contingenza dell’essere umano.

NEI FILM di Varda, le cose sono così come sono… Proprio perché potrebbero essere altrimenti. In questa contingenza c’è ovviamente il tema dell’angoscia data dalla perdita del senso. E della fragilità dell’esistenza. Temi che sono l’espressione di tutta un’epoca e di un brodo culturale sia letterario che filosofico. Ma che in Varda assumono una concretezza nuova. Come nello splendido Cleo dalle 5 alle 7 (il suo secondo film, del 1961 e forse il più famoso), dove Varda esplora la differenza tra il tempo e la durata, tra il passare oggettivo dei minuti e la sensazione soggettiva dello scorrere del tempo, che si dilata o accelera seguendo la fisarmonica dei sentimenti di una donna che aspetta i risultati di una biopsia.