Bologna la dotta ha sempre avuto col teatro un rapporto pieno di contraddizioni. Fino a un pugno di anni fa c’erano due grandi sale centrali, ove sfilava il “grande teatro”, ovviamente piuttosto tradizionale: il Duse e l’Arena del sole, luogo deputato agli “spettacoli diurni” restaurato dal comune pochi decenni or sono. Il primo, dopo la dismissione da parte dell’Eti, è stato preso da privati, e privilegia ormai l’intrattenimento. La seconda è stata a lungo gestita da Nuova scena, cooperativa molto legata al Pci (e poi Pds e Ds), fondata un tempo da Dario Fo e trasformatasi negli anni in una società quasi autoreferenziale, con quattro esponenti che la gestivano e vi lavoravano, con impegno purtroppo impari ai risultati. Accumulando anche un deficit non indifferente, che solo due anni fa è stato risanato con l’intervento di Lega Coop e amministrazioni pubbliche (il comune è proprietario dell’immobile glorioso), e l’Arena è finalmente entrata nell’orbita del teatro pubblico regionale, Emilia Romagna Teatro, che a pieno diritto è stato di recente annoverato tra i “nazionali”. Attorno ai due colossi del centro, diversi teatri di minor capienza, talvolta coraggiosi, ma spesso con il bisogno primario del far ridere.

La regione è sempre stata fertile e innovativa in campo teatrale, a partire dalla Comunità Teatrale che per prima diede corpo sulla scena alle istanze del ’68 (regista Giancarlo Cobelli e attori come Edmonda Aldini e un Massimo Castri agli inizi). Poi dagli anni ’90 si è parlato di Romagna Felix, per la concentrazione in quel territorio di forze innovative come, tra i molti, a Cesena la Societas Raffaello Sanzio e la Valdoca, i Motus da Rimini e le Albe ravennati. Tutti confluivano naturalmente sul grande bacino di pubblico bolognese, garantito dagli studenti dell’Alma Mater che per altro, prima università italiana, aveva aperto un Dams, facoltà di spettacolo con primo ispiratore Umberto Eco. E poi c’è stata un’altra presenza fondamentale e feconda sulla scena bolognese, Leo De Berardinis che qui si era trasferito lasciando Roma e il suo originario sud. Un “profeta”, Leo, il cui fantasma aleggia ancora da queste parti. Sia per i molti suoi allievi che poi sono autonomamente cresciuti, sia perché rimane esemplare il combattuto rapporto cui fu costretto con il buongoverno petroniano, che gli fece sudare non poco uno spazio creativo autonomo.

Ecco, anche ora che tutto il sistema regionale dovrebbe ricompattarsi nell’ente nazionale (che però ha sede storica a Modena…), potrebbero ripresentarsi quei contrasti che tanto avvelenarono gli anni di Leo. Per una serie di motivi diversi ma a loro modo coincidenti. Il caso e l’anagrafe vogliono che si avvii a lasciare la direzione dell’Ert Pietro Valenti, che l’ha portata a livelli di eccellenza internazionale, investendo tra gli altri su Thierry Salmon e sull’ultimo Castri, senza trascurare mai il lavoro dei gruppi locali, in particolare della “sponda romagnola”. E avendo ora a disposizione la scena portante dell’Arena del sole, il problema della sua successione rimbalzerà sui prossimi assetti bolognesi post elezioni, anche per l’inveterata passione, per diversi assessori emiliani, a “autorigenerarsi” nella responsabilità degli enti culturali che come amministratori gestivano. Il problema vero poi, saranno i molti pretendenti alla direzione Ert da tutta la regione, partecipanti al fatidico “bando pubblico”, che nella prassi dei nostri politici somiglia sempre più a un mal mascherato gioco dei bussolotti.

Le voci parlano di una selva di pretendenti, che si rincorrono per Bologna: giovani studiose portate da attempati baroni, altri neoaccademici tanto eruditi quanto ignari del mondo della produzione, di rampanti direttori di festival minori che si sarebbero appositamente dimessi per poter scivolare sulla poltrona capitale. Verrebbe da auspicare un “papa straniero”, se è vero che qualche buona candidatura è arrivata anche dall’estero (se non addirittura qualche buon quadro interno, che pure non manca).

Anche se prevedibilmente, in ogni caso, molti fronti si riaprirebbero attorno a Bologna e alle sue porte. Se ci fosse ad esempio una affermazione grillina (Guazzaloca quando vinse con la destra non cambiò più di tanto gli assetti culturali, almeno quelli più in vista), con il suo digiuno assoluto nel settore, rischierebbe di causare una seconda Parma… E più che una anomalia, resta fitto mistero perché una città che si fregia di buongoverno in ogni settore, nei campi attivi della cultura non abbia mai segnato dei punti, neanche a quelle che erano le proprie province.