Licia Pera, infermiera, lavora all’Inail ed è nell’esecutivo nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb). Nel percorso verso lo sciopero globale, ha partecipato al tavolo Lavoro e Welfare, uno degli 8 su cui sta discutendo il movimento Non una di meno.

Qual è il suo sguardo su questo movimento?
Un approccio di genere è fondamentale anche dal punto di vista sindacale. Intanto, perché alcuni settori del pubblico impiego come la scuola o la sanità sono prettamente femminili, e così pure il mondo dei servizi legati al pubblico con contratti privati, come le cooperative di servizi alla persona. Un dato che la crisi degli ultimi anni ha reso più acuto. Le donne funzionano ancora come esercito di riserva, occupano i posti più bassi nella scala gerarchica lavorativa, sono più precarie. Anche i primi dati sui voucher mostrano che a usufruirne è circa il 60% di estremo precariato femminile. E poi ci sono le pratiche delle dimissioni in bianco, il mobbing, le molestie sul lavoro. Inoltre, la cosiddetta femminilizzazione del lavoro riguarda tutti.

Come valuta la discussione al tavolo Lavoro e welfare?
Mi ritrovo molto nella discussione in corso, perché è profondamente ancorata alla realtà. E non potrebbe essere diversamente, visto che – nonostante siano presenti tutte le generazioni – la componente che prevale nel movimento è quella delle giovani femministe, che vivono una condizione totalmente diversa da quelle precedenti: non è neanche più la condizione del precariato “garantito”, dei contratti a tempo determinato anche molto lunghi ma con una possibilità di sbocco lavorativo, per esempio nei servizi pubblici. Nel movimento di oggi, il precariato è una condizione di vita, non solo di lavoro. Non è una condizione transitoria, non ci sono prospettive. Questo implica uno sguardo diverso sul mondo del lavoro e produce un diverso rapporto, anche conflittuale, con il sindacato: un rapporto a volte anche difficile ma proficuo per tutte le anime che sono all’interno del tavolo purché ci ci stia con pari dignità, senza che una voglia prevaricare, avere la verità. Siamo tutte portatrici di esperienze che può essere utile mettere a frutto, le vere discriminanti nel tavolo sono alcuni punti fondamentali e che mi sembra ci siano, le giovani generazioni portano la qualità necessaria. Questo movimento si muove poco sul discorso delle quote femminili e delle pari opportunità, ma molto di più sulla critica alle politiche di conciliazione che ripropongono anche dal punto di vista culturale lo schema della donna che deve essere multitasking. Con le politiche di conciliazione, in questi anni si sono consumati i peggiori soprusi sui posti di lavoro, dallo smart-working al telelavoro, a tutta quella flessibilità imposta. Non si tratta di negare la flessibilità degli orari a parità di salari e condizioni nell’amministrazione pubblica. Quel che è passato, a livello contrattuale è la flessibilità obbligatoria e senza diritti: prima l’entrata in vigore dello smart-working, l’assenza di una postazione, sempre con lo smartphon o il computer e in più nella solitudine, nessuna organizzazione collettiva delle lotte, violenze che si consumano nello squilibrio di poteri per la lavoratrice (perché in maggioranza sono lavori fatti dalle donne). Il sogno di ogni datore di lavoro. Il tavolo ha avanzato la questione del welfare universale, gratuito e non familistico come invece è oggi, quando diventa patrimonio solo di chi un contratto di lavoro ce l’ha. E, soprattutto non si possono togliere i soldi dal salario. Tutto questo c’è nella discussione del tavolo. Come Usb noi condividiamo la proposta di un reddito di autodeterminazione per le donne. Da anni ci battiamo per un reddito minimo sociale e per un salario minimo che non può scendere a livelli inaccettabili, per evitare la guerra fra poveri e poverissimi. Per le donne, questo significa la possibilità di uscire da percorsi di violenza in maniera autonoma, senza dover accettare per forza lavori disumani. Siamo tornati a condizioni ottocentesche: nella logistica della grande distribuzione, ci sono grosse sacche di lavoro nero, ma poi esistono anche zone di vera schiavitù.

E rispetto al lavoro migrante?
Quando pensiamo ai migranti, pensiamo al lavoro nei campi, a chi arriva sui barconi, ma esiste anche la condizione del badantato, benché legale. Le donne vivono assoggettate nelle case, esposte agli abusi. Le donne italiane, spesso, si affrancano dal lavoro di cura a scapito di altre donne che arrivano qui dopo aver lasciato le famiglie per occuparsi delle nostre. Il movimento ha fatto emergere questi aspetti. Come sindacato, il lavoro con i migranti è un po’ il nostro pane quotidiano, interveniamo nella logistica, ora anche nel bracciantato, ma abbiamo ancora difficoltà a far emergere tutta la realtà del badantato.

Usb ha aderito allo sciopero per l’8 marzo, ma ha anche mantenuto la mobilitazione della scuola per il 17. Perché?
Da diversi anni, nell’Usb cerchiamo di allargare l’orizzonte in un’ottica di genere. Non era scontato e non è stato facile. L’adesione allo sciopero globale è stata vissuta e condivisa negli organismi collettivi e stiamo preparando lo sciopero con le strutture del pubblico, del privato, della federazione sociale. Anche in presenza di tanta precarietà si può vincere. Lo abbiamo dimostrato con gli 81 giorni di occupazione all’Istituto superiore di sanità. Tutte le nostre storie le immettiamo nello sciopero dell’8 marzo. Quanto a quello del 17, è vero che l’80 per cento della scuola è femminile e lo stesso vale per la sanità, tutta la componente del pubblico impiego è al 60% femminile, e che queste tematiche sono incluse nello sciopero globale. La categoria ha ritenuto però necessaria una ulteriore specificità, mentre stanno arrivando in parlamento le deleghe sulla Buona scuola in scadenza. C’è l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro. Si è detto che due giornate di sciopero pesano troppo sul portafoglio. E’ vero, ma non lo stiamo chiedendo a un settore marginalissimo.

Dal movimento delle donne sembra emergere una nuova consapevolezza del rapporto tra legittimità del diritto e legalità che la nega.
Oggi tutto quello che si muove nel mondo del lavoro è così precario e atipico, fuori dagli schemi classici del ‘900, non è intercettabile con le categorie classiche del sindacato, anche se le interseca. Per questo, noi abbiamo anche le Federazioni del sociale. Non molto tempo fa, una donna è morta di fatica nei campi, dove c’è caporalato, lavoro nero, sfruttamento, e bisogna intervenire con molta attenzione. In Basilicata abbiamo fatto degli incontri con la Regione. Si tratta di contrattare non solo condizioni di lavoro, ma di esistenza perché le persone vivono in condizioni di vita disumane e si ammalano per questo. Lì le condizioni sono ancora peggiori di quelle della logistica, perché non viene riconosciuta la dignità umana, che va di pari passo con quella del lavoro. E poi c’è il problema della casa, che non riguarda solo migranti e sfrattati ma ormai anche il ceto medio impoverito che non ce la fa a pagare l’affitto anche se ha un salario. Le occupazioni oggi non le fanno più solo i proletari ma anche chi ha un lavoro povero che predispone a una pensione misera e non ha neanche più la prospettiva di un miglioramento. Con il movimento delle donne, condividiamo un grande principio: che non esiste legalità senza giustizia sociale. Oggi la legalità, anzi, reprime qualsiasi richiesta di diritto da parte dei ceti popolari, è uno dei punti che più contestiamo a chi fa della legalità una gabbia simbolica. Il movimento delle donne è partito non a caso dall’Argentina, parte di un continente in cui c’è una nuova declinazione dei diritti sociali. E’ vero che i movimenti femministi quando c’è l’attacco delle destre razziste e xenofobe, rispondono sempre. Questa volta, però, le manifestazioni contro Trump vanno oltre. Questo è un movimento che riesce a mobilitare tante energie, tante intelligente, tante condivisioni a livello globale. A fronte di femminicidi apparsi come la punta dell’iceberg e a molto fuoco che covava sotto la cenere, è come se si fosse rotta la diga della sopportazione.