Una lettera per Mario Mieli, il suicidato, e per la comunità de «il manifesto», dopo gli orrendi fatti della strage di Orlando.

Chissà perché, caro Mario, guardando circolare qui sulla bacheca di facebook messaggi guasti di collera, messaggi convulsi, oppure solo scavati di disperazione, mi ritrovo a pensarti. Quest’altra ferita, enorme e grottesca, che pure ci guarda di sbieco, che sembra addirittura non appartenerci per un fraintendimento geografico, o perché minuta o più minuta rispetto alle altrettanti stragi vicine (quale sciocchezza: come se il dolore potesse avere provincia o gerarchia!), questa ferita non ha bisogno di prefazione.

Certo, ci sarà da fare sbrigativamente un’autopsia della scena del delitto: si dovranno individuare i colpevoli e i presunti mandanti, i grovigli, gli appelli, le circonferenze del potere, i tanti, sinuosi collegamenti tra una circostanza e l’altra: ma come sempre, tutto questo densissimo pulviscolo di parole non servirà che a tormentarci gli occhi e le orecchie, già così purgati e deformati, così stanchi.

E neppure questo basterà: d’essere stati nel recinto del giusto, nell’epoca luminosa dei diritti civili. Di poter dire, ora che non serve più: non condivido. Di poter apporre aggettivi di dissenso, di poter piangere pubblicamente, una volta tanto nella ciminiera della storia, i nostri morti, e i nostri vivi.

Ma, appunto, non basterà. Non basterà come non è bastata questa rutilante farsa dell’amore che ha vinto: e cosa? Dico io: nulla.

O nulla di davvero cruciale. Concedimi quest’ultima oscenità, concedimi di dubitare, e di disubbidire, perché io diffido ancora della tolleranza, e perché tutto invece attorno è miseria e tolleranza.

Perché davvero non si può spacciare per vera libertà questa specie di libertà sintetica: questa libertà di strade con i nostri colori, di quartieri con i nostri colori, e di club, e di discoteche, e di circoli, e di accademie, e di chiese. Perché questa uguaglianza che vuole un posto per tutti e ognuno al proprio posto è un deliberato attentato alla vita.

E, in ultimo, perché – con disgraziata ostinazione – abbiamo dimenticato.

Abbiamo dimenticato che non era questa la strada, il modo, il mondo da farsi: perché tra tutte le rivoluzioni, questa era la più prossima a non fallire, ed è fallita comunque. Avremmo fatto a meno degli orrendi specismi, della megere guerce dell’eterosessualità e dell’omosessualità, del bruto potere del fallo, ma abbiamo rinunciato.

Quel che si poteva tacere, è stato taciuto; quel che si doveva cancellare, è stato definitivamente cancellato.

Ecco il motivo, dunque, del mio voto d’incredulità. Ecco, forse, perché torno a pensarti. Ma non è mia intenzione proporre un altro memoriale, o un’altra dichiarazione di resa: oggi chiedo quiete e chiedo inquietudine.

Ma vi prego: non scambiate per terra promessa quest’isola di desolata normalità!

Giorgiomaria Cornelio, 19 anni, Macerata