Un grande ritorno quello di Pippo Delbono in palcoscenico dopo qualche tempo. Lo racconta lui stesso all’aprirsi del sipario (allo Storchi di Modena, produzione Ert, ancora oggi e domani, poi in tournée in Italia e all’estero). L’ultima apparizione, tre anni fa, portava come titolo La gioia, ora, in una sorta di escalation di sentimenti, titolo è Amore, anche se come sempre con l’artista ligure, ogni parola o indicazione ha un valore ricco, ma insieme anche contraddittorio. Questa volta lo spettacolo si trasforma quasi naturalmente in «canto», attorno all’argomento che gli dà titolo, ovviamente, con un trasporto di sentimenti davvero consistente.

PER LA PRIMA volta Delbono non appare in un suo spettacolo, se non alla fine, quando arriva al palco dalla platea seguito dai suoi attori. Ma è la sua voce, che legge in diretta testo e testi (da Prevert, che riesce a liberare finalmente della retorica cui è sempre condannato, a Pessoa, Rilke, e perfino il «contiguo» Garcia Lorca), ma fuori campo.
Sono i «suoi» attori, quelli di età e generazioni diverse che si sono succeduti negli anni nei suoi spettacoli, e oggi condividono insieme il dolore per la scomparsa di Bobò, a raccogliersi in questa occasione, da Gianluca a Nelson, da Mario a Pepe naturalmente. Forse il loro è il più intenso esempio di «amore» teatrale esistente. Sono molti, spiega la voce dell’autore fuori scena, perché quel sentimento nasce spontaneo, come esigenza e come fine, dal dolore e dalla tristezza. Rivendicarlo è la giusta reazione contro la depressione, per superare crisi e irrequietezze, minacce e insufficienze.

L’ESEMPIO concreto di quell’itinerario, Pippo lo dà esternando la sua passione per un luogo e la sua cultura: il Portogallo, paese dell’accoglienza più ampia, quasi istintiva o connaturata. Per questo(grazie a splendidi solisti di voce e strumenti) a tessere tutte quelle parole sul corpo dei performer, è proprio il fado, la più popolare forma di espressione di quel paese. Il fado che è insieme canto d’amore ma anche di dolore, sintesi suadente e fascinosa di quella convivenza che a parole razionalmente sembra inconciliabile.
Lo spettacolo (frutto di una collaborazione produttiva internazionale) procede così tra visioni e affondi, tra melodie struggenti ed effervescenti immagini dei performer scatenati, in tenuta vistosamente elegante, oppure spettrali e tesi come per un rito voodoo. Le apparizioni di alcuni di loro in veste solista lanciano dei flash su momenti diversi del lavoro del gruppo, affondi visivi che sono dei colpi emotivi per chi li ha seguiti negli anni.
Ma a dominare è una emozione unitaria, un messaggio che lo spettacolo ci lancia come in bottiglia, confezionato nelle struggenti emozioni portoghesi, che la musica ci restituisce nelle sue contraddizioni, che sono anche la sua forza: le rive battute dall’atlantico e le sue colline di vigneti, una storia millenaria e la capacità di ricominciare dopo il buio attraversato nel secolo scorso (forse non a caso l’abbattimento della dittatura si chiamò «rivoluzione dei garofani»). La geografia e la storia di quel paese si fanno mappatura dell’animo umano, ragnatela di sentimenti che continuano a vivere e pulsare, antidoto unico contro l’abbattimento e la disperazione.

LA METAFORA di quella cultura (dove gli abitanti delle ex colonie affollano senza soverchi problemi le strade della metropoli) e della sua espressione popolare e artistica, prefigura, e forse diviene, sogno di speranza. Cui Delbono dà una chiara valenza esistenziale: in quel passaggio dalla Gioia all’Amore (veicolato attraverso le coinvolgenti melodie lusitane), sono solo la speranza e l’esperienza a vincere e impedire la resa e la caduta.
E quella tensione fattiva conferisce all’arte una sua sana necessità. Come dimostra anche l’albero, su un lato di proscenio, che all’inizio potrebbe suggerire una immobile evocazione di teatro orientale, e che invece questo Amore sul finale sembra far rincuorare e rinverdire.