Il mondo è ancora immerso nella tragedia della pandemia. Ma mentre i paesi ricchi hanno, bene o male, avviato sistemi di difesa, le vaccinazioni e l’accesso garantito alle cure, il resto del pianeta non sa nemmeno che cosa sia il vaccino, visto che domina il profitto delle multinazionali del farmaco e il dogma della proprietà privata dei brevetti. Intanto su questa terra desolata, e dominata, ri-precipitano con grande evidenza la crisi energetica e quella climatica già annunciate da tempo.

All’ordine del giorno dovrebbe essere, nelle sedi internazionali e quelle anguste nazionali, il disegno di un nuovo welfare, la difesa della sanità pubblica attraverso massicci finanziamenti, la difesa dai rincari del costo della vita, nuovi diritti come il reddito di base per rispondere alla disoccupazione che avanza – la «piena occupazione» è una promessa che il capitalismo ormai non sa più come gestire.

E sempre all’ordine del giorno dovrebbe essere la transizione ecologica che metta al centro le energie rinnovabili e sostenibili – ma in Italia si torna a straparlare tranquillamente di reattori nucleari.

Invece che accade? Accade che la guerra resti il cuore duraturo di ogni investimento per il futuro. Accade che il «mite» presidente americano Joe Biden, immemore della lezione afghana, lanci in funzione anticinese, un nuovo mega-accordo militare, una sorta di Nato del Pacifico.

Insieme a due alleati d’acciaio, la Gran Bretagna di Boris Johnson che ha dato bella mostra di sé in epoca trumpiana con la Brexit anti-Ue, e l’Australia da sempre al seguito di ogni avventura bellica americana.

È un patto che sconquassa ancora di più la credibilità dell’Alleanza atlantica, «ferrovecchio» della guerra fredda ma in guerra da venti anni, i cui fallimenti abbiamo visto dipanarsi sotto i nostri occhi proprio negli ultimi venti anni, dai Balcani – ma c’è davvero qualcuno che pensa che lì, nel Sud-est europeo, quella guerra “umanitaria” abbia stabilizzato le crisi intestine? – al disastro cocente della Libia; per arrivare al precipizio ventennale dell’Afghanistan.

L’esportazione della democrazia con le armi ha fallito, le occupazioni militari hanno fallito, gli effetti collaterali con le uccisione di civili sono rimasti i «nostri» crimini di guerra non puniti, e i nemici sono tornati ovunque al potere, come se non peggio di prima.

Ora il nemico è la Cina. Quella Cina che grazie alla via capitalistica di Deng Xiaoping ha permesso al capitalismo internazionale di salvarsi con le zone speciali, le joint ventures, l’ipersfruttamento garantito di una manodopera di miliardi di persone; spaventa la Via della Seta, la sua «visione economica internazionale».

Ed essendosi spento da tempo ogni scontro ideologico, ecco che le nuove guerre sono apertamente commerciali: quindi via al controllo militare delle rotte da parte di sommergibili a propulsione nucleare – le vecchie cannoniere del colonialismo – da parte di nuove potenze del Pacifico.

Quanto costa un sommergibile a propulsione nucleare? L’ultimo modello è vostro al modico prezzo di circa 10 miliardi di dollari – secondo i dati dell’Istituto navale Usmi che cita il Rapporto della Marina militare Usa.

Ce n’è per dire basta con l’Alleanza atlantica. I cui alleati europei sono stati esclusi da tutto, dal ritiro-fuga da Kabul e ora anche da quest’ultimo Patto del Pacifico che pericolosamente allarga ad altri Paesi la possibilità delle dotazioni di sottomarini a propulsione nucleare; con la furia della Francia che «deplora» perché aveva sottoscritto un patto simile proprio con l’Australia – la reazione di Macron non è certo sdegno «pacifista» ma la protesta di un rappresentante del complesso militare industriale non invitato alla spartizione della torta.

Non ci vorrebbe molto a dire: allora basta con la Nato. Che tra gli altri danni che provoca, c’è quello di surrogare e sussumere ormai l’inesistente politica estera dell’Unione europea, ora alle prese anche con l’autoritarismo di Paesi Ue (come Ungheria e Polonia) nel frattempo diventati iper-atlantici.

E invece no. Il discorso di Ursula von der Leyen al parlamento europeo manda a dire che sì, ora ci vuole la «difesa europea», ma senza dire che fine farà il doppione dell’Alleanza atlantica, vale a dire il doppione della spesa militare, per centinaia di miliardi di euro complessivi, che ogni paese alleato sostiene; a partire dall’Italia che vede sul proprio territorio decine di bombe atomiche e una seminagione di basi e servitù militari che minano da tempo la sua indipendenza perfino territoriale.

E che fine fa il doppione di missioni di altrettanto pronto impiego che la Nato ha allestito per ogni parte del mondo – dall’Europa al Medio Oriente, dall’Africa all’Asia – dopo la sua «riforma» dell’aprile 1999 quando da organismo di difesa si è trasformato, appunto, in uno di offesa e pronto intervento, naturalmente «umanitario» ?

Ci vuole – ecco l’impegno Ue in pieno Covid non debellato, in piena crisi energetica e climatica – un «corpo di pronto impiego», dicono tutti i leader europei: 5mila uomini addestrati a tutto, pronti a intervenire manu militari nelle crisi che si aprono.

Ma dopo la tragicommedia afghana è lecito o no chiedersi: dove? Come? E soprattutto a fare che? Perché le crisi che si aprono sono infinite, prodotte dal sistema diseguale che guida le sorti dell’umanità.

Che ci andiamo a fare con le armi che abbiamo contrabbandato massicciamente con il nostro prezioso import-export militar-industriale, con i risultati delle tante guerre accese in ogni lembo del pianeta? Dalle quali ci arriva la scia di sangue del terrorismo di ritorno e il dramma dei migranti che la «civiltà occidentale» ha imparato a relegare in inediti, terrificanti, universi concentrazionari.

È tempo davvero di dire «Basta».