Il rischio è che di fronte alla colossale violenza degli uomini in divisa e al fatto che le uniche importanti esperienze di organizzazione rimaste dopo il frantumarsi dei social forum siano legate alla tutela legale dei colpiti dalla repressione, di Genova si parli solo per denunciare il trauma degli abusi delle forze dell’ordine. L’Agguato (manifestolibri, pp. 180, euro 16) è un documento importante perché serve invece a restituire il senso complessivo di quegli eventi.

SI TRATTA DELLA RIEDIZIONE del libro bianco pubblicato nel 2002 grazie alla collaborazione del Genoa Social Forum con cinque testate della sinistra (l’Unità, Liberazione, il manifesto, manifestolibri e Carta). Come spiega Anna Pizzo, che si occupò allora di tenere insieme il laboratorio del media center e che anche in queste pagine riannoda il filo della memoria, questo testo venne pensato per rispondere all’aggressione poliziesca e mediatica.

Ma, aggiungiamo noi, riesce anche dopo venti anni a rendere lo spirito di Genova. Costruito a ridosso dei fatti, con un montaggio di pagine da contro-inchiesta e racconti in prima persona di osservatori privilegiati e manifestanti comuni, ci aiuta a ragionare politicamente su quelle giornate. Bisogna riconoscerne le genealogie: a Genova precipitarono almeno dieci anni di sperimentazioni sociali, politiche e culturali e comunicative. Ma anche coglierne le prefigurazioni oltre che individuare limiti e contraddizioni.

Come emerge dai racconti dei testimoni e come sottolinea Marco Grispigni contestualizzando storicamente con puntualità questa nuova edizione, l’agguato vero e proprio, l’evento che fa saltare la gestione della piazza è l’aggressione deliberata e a freddo al corteo dei «disobbedienti» al quale aderiscono le tute bianche, i Giovani comunisti di Rifondazione e la gran parte dei centri sociali italiani che hanno scelto di seguire l’itinerario politico che conduceva a Genova. In seguito a quella carica violentissima e alla legittima difesa dei manifestanti nasce la catena di eventi che conduce all’omicidio di Carlo Giuliani.

Questa scelta di prospettiva punta lo sguardo sul punto più avanzato e al tempo stesso più fragile dell’esperimento genovese. Dallo stadio Carlini lungo via Tolemaide si guadagna un punto di vista dal quale è possibile interpretare il silenzio dei movimenti e della sinistra di questi anni. Si riconosce una coalizione che cercò di sfuggire alle trappole che hanno bloccato le insorgenze degli anni precedenti e che avrebbero paralizzato quelli a venire.

Dal punto di vista delle tattiche di piazza, si cercava di travalicare il confine, spesso percepito dagli attivisti come arbitrario e paralizzante, tra violenza e nonviolenza. L’intuizione avrebbe avuto un seguito: si pensi alla pluralità delle forme di lotta esercitate in Val di Susa (oltre ogni statica classificazione binaria) o a l’utilizzo di scudi di plexiglass per difendersi dalla polizia, ripreso anni dopo dal movimento dell’Onda coi bookbloc e poi divenuto consuetudine nelle insorgenze globali di questi anni.

DALLE MOLTE VOCI di questo libro emerge un mosaico delicato e prezioso. Quando va in pezzi, di fronte ad una violenza che non si era stati capaci di prevedere, accade che in maniera graduale eppure inesorabile ognuno torni a giocare nel campo identitario che gli è più congeniale. Per questo anche su un piano strettamente politico, l’agguato è la parte per il tutto. Fa comprendere il senso del movimento dell’epoca (quello che con un’espressione abusata ma veritiera teneva insieme l’antagonista e il boy scout): costruire uno spazio pubblico autonomo in grado di dialogare alla pari con i partiti che di lì a poco avrebbero conosciuto l’agonia cui assistiamo oggi.