Il tempo diventa prezioso si legge in una pagina dei diari di Angela. Ma quale tempo? Quello del cinema? Quello della vita? L’immagine dopo ce la mostra mentre raccoglie i pomodori nell’orto della casa in campagna, un gesto quotidiano tra gli altri che compongono il lungo e appassionante viaggio che è I Diari di Angela – Noi due cineasti presentato al Lido – fuori concorso. Lo firmano insieme, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, lei è mancata qualche mese fa, era la fine di febbraio, la ritroviamo in ognuno dei fotogrammi e in quella calligrafia ordinata con cui annota gli eventi di una vita che è la loro arte, la ricerca del nostro presente, della Storia, del Novecento. Gianikian e Ricci Lucchi sono due artisti, filmmaker, esploratori che tracciano una cartografia del contemporaneo a partire da un vissuto: l’Armenia del padre di Yervant, sopravvissuto al genocidio (mai riconosciuto) della Turchia contro gli armeni, che lo costringono a negare la propria origine, la lingua, sé stesso. La Romagna di Angela, che da bimba stava sulla «linea gotica», ha visto la guerra, e poi ha studiato arte a Vienna con Kokoschka, nel lavoro e nella vita comuni entrano le singolarità, si mescolano quasi in sovrimpressione, un’alchimia perfetta di equilibrio. Come è possibile raccontarlo? Come si fa a dire del tempo insieme? L’inizio può essere uno «statement», una dichiarazione politica che è il manifesto del loro pensiero: essere artisti per esprimere «la nostra indignazione», che se gli artisti si occupassero di queste cose il nostro mondo oggi sarebbe meno disgraziato dice determinata Angela davanti a uno dei suoi acquerelli che li rappresenta, lui alto, lei piccolina, diretta, con le parole che sanno colpire al cuore delle cose.

Sono a Parigi, il Centre Pompidou gli ha dedicato una magnifica retrospettiva, la loro opera viaggia da anni nel mondo, festival, musei, in Italia rimane quasi sotterranea. Nei film hanno parlato del fascismo, del colonialismo, sono gli unici nel nostro paese. Scavando negli archivi di immagini sconosciute, dimenticate, di cui spesso non si conoscono neppure gli autori riposizionano la nostra storia, e quella del secolo scorso, illuminano il presente. Cercano le origini, l’essenza delle cose, l’attualità è anche in un vecchio fotogramma di cui si deve cogliere il senso sotto la patina. Li vediamo negli schermi delle installazioni allestiti per la personale di qualche anno fa all’Hangar Bicocca di Milano, un evento e un riconoscimento importante anche nella città in cui vivono. Poi arriverà il Leone d’oro alla Biennale d’arte 2015, il padiglione è quello armeno, l’opera il rotolo composto da Angela con i suoi disegni. Ma I Diari di Angela non è una «biografia» didattica dell’opera, è piuttosto una lettera d’amore bella e commuovente – per chi li conosce e per chi no – che con pudore ci porta dentro al loro universo poetico (e politico), nell’intimità complice di un «fare» in cui è importante ogni piccolo gesto, in cui la vita di ogni giorno diventa il senso profondo di quell’arte.

E non poteva essere altrimenti. La narrazione, che è guidata dai diari, sfogliati oggi dalle mani di Yervant, quaderni neri, con le parole che si accompagnano ai disegni, gli schizzi, paesaggi, facce, insetti non prende mai una distanza: non c’è un «io» e un «tu» ma un noi, lo spazio comune di questa esistenza insieme, la condivisione di ogni istante che è la dolcezza di un’abitudine, di una luce del tramonto dietro alla finestra, di un primo piano di Angela coi capelli bagnati, di una frase che nel lavoro tra le pellicole lascia scivolare il colore dei calzini da mettere in valigia. È così subito, dall’inizio, negli anni Settanta quando si incontrano, l’immagine di un film di Angela sulla quale, come ci dice la sua voce, Yervant interviene con dei segni sulla pellicola racchiude già questo «metodo»: lei aveva filmato la campagna, un casale, dei bambini, il rito della messa sull’aia, una festa religiosa. Il mondo dove era cresciuta colto nella sua durezza. Angela scrive, Yervant filma, il «noi» è sempre un passo a due, ci si guida reciprocamente nello spazio per inventare diverse geometrie.

Nel viaggio in Turchia Angela sorride sotto a un cappello, è una ragazzina un po’ divertita, un po’ nouvelle vague francese con la maglietta a righe. Yervant fuma, ha i capelli neri. Potrebbero essere le immagini di un film familiare, un po’ lo sono, e però la Storia irrompe tra i bordi di ogni inquadratura, è la memoria dl padre di Yervant. La terra che raccoglie in un sacchetto, una materia preziosa. A Mosca, dove arrivano mentre l’Urss si sgretola e forse per questo li guardano con sospetto, l’archivio che consultano per un loro lavoro si apre grazie alla simpatia del gatto della responsabile per Angela, arrivano così centinaia di bobine. Le pagine scorrono, leggiamo oltre le parole di Yervant. Campo/controcampo.

I diari diventano una diversa interpretazione del mondo. L’Armenia scoperta con il loro amico Walter Chiari, la faccia da ragazzo impertinente, fa battute che gelano chi sta intorno. Gioca col bicchiere di vodka e ci soffia il fumo dentro. Sarajevo,con la guerra che nonostante la pace non è finita. Angela si chiede che senso ha presentare dei film lì se non si lavora per capire come tutto questo sia potuto accadere. È la stessa domanda che pone tutto il loro lavoro. Se le immagini di Yervant ci mostrano ciò che appare davanti all’obiettivo, le parole di Angela, interrogano quelle immagini, cercano le crepe dietro al visibile, con leggerezza e ironia come quando annota che i soldi del loro affitto vengono usati dai padroni di casa a Mosca per «finanziare» ogni sera cene con moltissimi commensali.O quando Yervant va a fuoco, e rischia di morire, e lei disegna la storia con tratto lieve, quasi una fiaba, mentre la voce che narra si rompe fino alle lacrime. È come se questo film, così diverso dagli altri, sorprendente e pieno di emozione, ci rivelasse quanto c’è dietro e dentro la loro opera, quello che è il loro laboratorio di artisti, senza separazioni tra pubblico (l’opera) e privato.

Angela dipinge, legge, cucina: la vediamo che taglia le zucchine, che spiega a Yervant mentre filma le sue ricette, dolci magnifici, che somigliano a quelli dei suoi disegni. Le sue mani girano la crema e dispongono il rotolo da disegnare sul tavolo. Il fare è pazienza, passione, amore, attenzione all’equilibrio un po’ la stessa cosa del mosto che diventa vino, come spiega a Angela la sua amica contadina in campagna. Il fare è due occhi, quattro occhi che scoprono a vicenda traiettorie impreviste. Il fare di un’arte che è uno sguardo sul mondo.