Alla Fabbrica del Vapore di Milano si è conclusa domenica 31 maggio 2015 la settimana mondiale del commercio equo e solidale (World Fair Trade Week). L’appuntamento, che si celebra ogni due anni (l’ultimo a Rio de Janeiro, il prossimo a New Delhi), ha riunito produttori, contadini e artigiani in rappresentanza di 3000 organizzazioni e un milione di lavoratori.

La scelta di Milano non è casuale.

Giorgio dal Fiume, presidente di Wfto-Europa e membro del direttivo di Agices, spiega il senso di incontrarsi nella città di Expo, ma standone fuori.

«Quello che abbiamo fatto è per noi straordinario: è stato l’evento più grande che il movimento del commercio equo abbia mai realizzato. Nei primi giorni abbiamo affrontato, in un’assemblea con più di 300 delegati da tutto il mondo, l’aspetto politico e di autogoverno del commercio equo mondiale. Seduti l’uno a fianco all’altro, l’artigiana nepalese, i funzionari statunitensi, l’imprenditrice di Hongkong, i delegati della regione andina sono la fotografia della nostra biodiversità culturale. Alla Fabbrica del Vapore abbiamo messo in mostra tutto questo per testimoniare al mondo che un’altra economia non solo è possibile ma è una realtà concreta».

La crisi. Quanto ha inciso, quanto incide sulle scelte di consumo e sul commercio equo?

Fino alla fine del 2014, e dunque anche negli anni della peggiore crisi economica dal dopoguerra, il commercio equo ha registrato un incremento di fatturati e volume di vendite a livello italiano, europeo e mondiale. Lo stesso si può dire dei primi mesi del 2015, anche se non abbiamo ancora dati ufficiali. Questo ci dice qualcosa di importante: i temi della qualità del consumo e della valenza etica dei prodotti si sono diffusi e hanno acquistato valore commerciale. Tuttavia, dire che la crisi non ha inciso per niente sarebbe sbagliato. La crescita generale è dovuta principalmente all’aumento di vendite nella grande distribuzione. È innegabile invece che le botteghe, che rappresentano il cuore del commercio equo, vivano una fase di difficoltà.

E al suo interno, come sta il commercio equo? Resta in piedi il paradigma tradizionale di un sud produttore e un nord consumatore?

In termini quantitativi la dinamica rimane quella: un mercato nel nord del mondo per merci prodotte o lavorate nel sud. I numeri però parlano anche di un’altra tendenza: l’acquisto di prodotti equo solidali nei paesi del sud del mondo è in aumento e cresce il numero di botteghe eque in Asia e in America latina. Si rafforza anche il commercio equo locale: nelle botteghe si trovano ormai prodotti nati sul territorio che soddisfano la filosofia e lo spirito del commercio equo. Parliamo sempre di piccoli numeri, che non ribaltano la dinamica generale, ma sono segnali importanti. Insomma, una qualche speranza di scardinare il meccanismo sud produttore e nord consumatore c’è. Sono sicuro che tra dieci anni le cose saranno cambiate.

Dal punto di vista di chi parla di alimentazione da decenni, come giudica l’esposizione mediatica che si fa oggi del cibo?

Con perplessità. La presenza massiccia e invasiva nel discorso pubblico del cosiddetto food ha come unica prospettiva il suo godimento, l’atto del consumo acritico e indifferente. L’esposizione continua del cibo come puro prodotto silenzia la riflessione sull’educazione alimentare e invita a un consumo che è solo atto, mai scelta. È lo stesso approccio superficiale che ha Expo sul tema.

Che tipo di rapporto c’è con Expo? Solo strumentale?

Abbiamo deciso di essere a Milano durante Expo e sappiamo che la cosa ha suscitato alcune critiche. Noi, Agicef e Wtfo, la consideriamo insieme una scelta politica e una strategia di visibilità. Vogliamo che dove si parla di come nutrire il pianeta sia presente e tangibile che un altro modo di farlo esiste già: c’è chi lo pratica da cinquant’anni. Non mi dispiace, inoltre, che i visitatori di Expo abbiano avuto la possibilità, almeno per una settimana, di entrare in contatto con un modello davvero alternativo, quello equo e sostenibile.

Perché allora non starci dentro?

Ne abbiamo parlato a lungo e non è stata una scelta scontata. Alcuni di noi avrebbero voluto partecipare: non avendo ben presenti le polemiche italiane, hanno visto in quel contenitore un’ottima occasione di visibilità e contatto col pubblico. Ma alla fine abbiamo valutato che il rischio di essere fagocitati in un contesto in cui a dominare sono i poteri dell’alimentazione e le multinazionali (che usano Expo come vetrina) fosse più grande dei vantaggi. E che da un punto di vista politico fosse meglio stare fuori. Ci tengo però a dire che non è stata una decisione semplice. Il commercio equo è equo ma è anche commercio: venti milioni di visitatori fanno gola a tutti. Visto che però una scelta l’abbiamo fatta, vorrei fosse valorizzata: basti pensare a quanti dei nostri potenziali alleati e amici hanno deciso diversamente.

La capacità di aggregazione del commercio equo è ancora forte, in un momento in cui l’opinione pubblica sembra così indifferente a una proposta alternativa al modello economico dominante?

Posso esprimere su questo un’opinione personale: ci stiamo ragionando proprio in questo periodo. Le botteghe eque continuano a essere poli di aggregazione ma è sicuro che la nostra capacità di aggregazione è diminuita. Io penso che i temi su cui noi siamo nati siano oggi meno attuali: decolonizzazione, disparità tra nord e sud, sfruttamento dei popoli. Gli argomenti con cui ci rappresentavamo all’esterno per cercare aderenti, militanti e consumatori, hanno meno presa rispetto a 40 anni fa. Le priorità sono cambiate. È ovvio, il mondo è cambiato. Ma non è ovvio dirselo e cercare di reagire. La crisi in Europa, col suo corollario di nuove povertà, ha anche ribaltato l’idea che la maggioranza ha del sud del mondo: non più terra di poveri contadini affamati dall’occidente ma serbatoio di migranti pronti a invaderci. Il risultato è che siamo meno attuali e le nostre risposte meno necessarie. Questo secondo me oggi è il principale problema del commercio equo.

Avete dati sui consumi equi e solidali per fasce d’età?

Se la domanda è se i giovani comprano equo la risposta è sì, ma solo quando riusciamo a raggiungerli: quando andiamo nelle scuole per esempio. È un grande cambiamento rispetto al passato, quando il nostro messaggio arrivava ai giovani come elemento di coinvolgimento: esemplare in questo senso il percorso di Genova 2001. Avevamo una relazione politica e non didattica con il mondo giovanile. Gli offrivamo una lettura del presente nel quale il loro affacciarsi al mondo trovava un ruolo, protagonismo e dei contenuti. Oggi è meno così. E in effetti questa è anche una delle ragioni che ci hanno spinto a organizzare la World Fair Trade Week: crescere in visibilità e autorevolezza, rinnovando il nostro messaggio e centrando i nuovi temi dell’attualità.