Con l’approvazione, il 10 ottobre scorso, del disegno di legge delega sulla non autosufficienza, il governo Draghi ha compiuto il suo ultimo intervento di carattere normativo.

Una scelta discutibile, sul piano della correttezza costituzionale, essendo il governo dimissionario da mesi, e tuttavia potenzialmente giustificabile alla luce della vera e propria emergenza rappresentata dalle centinaia di migliaia di malati abbandonati ai loro familiari dal Servizio sanitario nazionale: al prezzo di sacrifici finanziari, sociali e umani (specie per la componente femminile delle famiglie) nella gran parte dei casi insostenibili. Un’emergenza, oltretutto, destinata ad aggravarsi nel tempo, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione; e dunque da affrontare non con misure-tampone, ma tramite una riforma strutturale del sistema, idonea a rivitalizzare le chiarissime parole della legge n. 833/1978 per cui spetta al Servizio sanitario nazionale farsi carico, tra l’altro, della «diagnosi e cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata» (art. 2, co. 1, n. 3).

Il punto è che difficilmente la condizione di non autosufficienza è destinata a rientrare: la gran parte dei malati ascrivibili alla categoria rimangono tali. Sono inguaribili, ma non per questo incurabili. Anzi: proprio per questo, maggiormente bisognosi di cure. Esattamente ciò che rifiuta di accettare il sistema pubblico che, sotto la dittatura dei vincoli finanziari, mira invece a liberarsi il prima possibile di coloro che risultano affetti da patologie croniche, specie tramite l’adozione di regolamenti regionali (atti subordinati alla legge) che prevedono misure quali: (a) il differimento temporale della presa in carico delle persone malate, (b) la subordinazione della presa in carico all’esistenza di ulteriori requisiti privi di rilevanza sanitaria (tra cui: il disagio economico, la mancanza di familiari, l’isolamento sociale), (c) l’ascrizione di prestazioni aventi natura sanitaria all’ambito, legislativamente meno tutelato e soggetto alla compartecipazione alla spesa, delle prestazioni assistenziali o sociali, (d) la predeterminazione della durata temporale dell’erogazione delle prestazioni sanitarie.

Erano queste le misure che andavano eliminate. E che, invece, proprio all’ultimo miglio del suo cammino, il governo Draghi, con Roberto Speranza alla Sanità e Andrea Orlando alle Politiche sociali, cristallizza in un disegno di legge delega «in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti» (ministro proponente Orlando).

Due sono gli assi portanti della nuova normativa. Il primo – ripetuto come un mantra – è che tutte le misure previste nel Ddl sono disposte «nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente». Il che, considerata la pletora dei malati già oggi scaricati dal Ssn sulle famiglie vale, di per sé, a palesare l’inadeguatezza dell’intervento normativo.
Inadeguatezza destinata, per di più, a sfociare in incostituzionalità, se è vero che la sentenza n. 275/2016 della Corte costituzionale sancisce che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». O il governo intende sostenere che la legge ordinaria prevale sulla Costituzione?

Il secondo è la sottrazione dei malati non autosufficienti dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) e la loro assegnazione all’istituendo Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente (Snaa). Una misura volta a complicare la tutela in giudizio dei diritti dei malati, dal momento che l’esigibilità di tutto quel che è ascrivibile al diritto alla salute è, all’atto pratico, incomparabilmente più solida di qualunque altra prestazione assistenziale.

Ecco, allora, il vero obiettivo del ddl: superare la giurisprudenza che oggi regolarmente condanna le Asl a fornire cure sanitarie e socio-sanitarie illimitate nel tempo ai malati non autosufficienti, costringendoli a procurarsi privatamente le prestazioni indifferibili di cui necessitano una volta superata la fase acuta della malattia.

Una privatizzazione di fatto della fase post-acuzie (su cui, non a caso, già volteggiano gli interessi delle assicurazioni) da cui potrà salvarsi, compatibilmente con le risorse disponibili, solo quel 4% di malati che, secondo i calcoli della Fondazione Promozione Sociale, rientra nei parametri dell’indigenza Isee.