Il T-Day di un anno fa è una di quelle giornate della storia recente americana paragonabile – per il trauma provocato e per le conseguenze – solo all’11 settembre 2001. Con la differenza che all’attacco alle Torri gemelle, l’America trovò il modo di reagire unendosi.

Pur essendo già allora molto polarizzata, già allora c’era un presidente che molti consideravano illegittimamente eletto e portatore di un’ideologia di guerra. Il Trump-Day, l’8 novembre 2016, di quella divisione è il frutto maturo, una presidenza destinata a scavare ulteriormente il fossato che divide le due Americhe, anzi ad avere la sua stessa ragione esistenziale nell’allargarlo e approfondirlo, il fossato.

È un bel segnale che le elezioni di martedì in tre stati scandiscano l’anno trascorso dall’elezione di Trump con un considerevole successo dei democratici, ottenuto peraltro nella contrapposizione proprio ai principali temi politici sui quali Trump lo scorso anno aveva costruito la sua campagna alla conquista del voto bianco di estrema destra. Ed è significativo che l’ex-presidente Barack Obama abbia avuto una parte importante in questa campagna elettorale.

La riscossa democratica segna dunque l’inizio di una fase destinata a culminare nella riconquista della maggioranza parlamentare nel 2018? È la domanda che tutti si fanno, e se la fanno soprattutto i repubblicani. Le variabili sono numerose, per potere fare previsioni adesso, certo il vento va in quella direzione. Ma questo significa che intanto la frattura del paese, esaltata dall’avvento di Trump, è destinata ad aggravarsi nell’anno che ci divide dal voto di medio termine. Trump non prende lezioni dalle sconfitte, e numerose ne ha collezionate in questi mesi. Al contrario, la sua reazione è il rilancio. Anche stavolta. Al povero Ed Gillespie, lo sconfitto in Virginia, un repubblicano moderato che aveva fatto sua la dottrina Trump nella speranza di vincere, il lunatico presidente ha dedicato un tweet in cui lo liquida accusandolo di non aver abbracciato né la sua agenda né lui, The Donald.

Si ripete da tempo che i sondaggi di Trump sono i più bassi per un presidente eletto solo da un anno. Vero. Ma è importante per Trump? Quel 40% oltre il quale non riesce ad andare è la sua base, l’unica America che conti per lui, e che non l’abbandonerà.

Se si pensa anche ai primi mesi di questa presidenza, non è stata una luna di miele. Era stato così per tutti i suoi predecessori all’avvio del nuovo mandato. Non per Trump. Non c’è stata la luna di miele, perché ha scelto deliberatamente la strada della contrapposizione con chi non l’aveva votato. In un anno non si contano le decine di tweet ostili verso Hillary Clinton. Evidente lo scopo, non porre mai fine alla campagna elettorale, anzi continuarla dallo studio ovale, facendo della sua rivale il simbolo del Partito democratico, l’effigie che diventa un bersaglio facile da colpire al cospetto della sua platea.

Così finché non ci sarà una figura «presidenziale» tra i democratici, quello schema continuerà a tenere banco nei calcoli di Trump. Ma c’è da scommettere che nel mirino, con sempre maggiore intensità, finiranno i capi del Partito repubblicano. Steve Bannon è molto chiaro da tempo su questo punto. L’ideologo di Trump, che con il presidente mantiene un dialogo costante, nonostante l’estromissione dalla Casa Bianca, considera l’establishment repubblicano il problema principale, colpevole di non aver portato avanti con la necessaria determinazione e convinzione la sua agenda conservatrice e, soprattutto, di avere consentito che l’indagine sul Russiagate prendesse il via e si sviluppasse, senza mai provare poi a fermare il procuratore Mueller.

Il voto di martedì è allarme rosso per i repubblicani, ma oseranno distanziarsi dal presidente in vista del 2018? Qualcuno l’ha già fatto, altri seguiranno. Molti però non lo faranno.

Perché le milizie di Bannon sono già sul piede di guerra per mettere fuori gioco i repubblicani che cercano la rielezione e sono considerati a rischio di autonomia dal presidente.

Conflitti su tutti i fronti, dunque. E, alla luce di un anno di presidenza, si può dire che Trump è un leader riluttante a fare guerre perché impegnato in una permanente guerra domestica. Può essere una coincidenza. Può esserci invece un’interazione tra le due cose, su cui però nessuno ha finora indagato. Fatto sta che, finora, con questo presidente, le contraddizioni interne americane, sebbene esplosive, non si sono risolte in guerre esterne. Finora.