La Guerra dei 100 anni in Medio Oriente continua e il lancio di missili americani su una base aerea del governo siriano, che sembra aver fatto danni insignificanti, non cambierà di un metro le posizioni sul terreno.

Purtroppo il conflitto in Siria è la conseguenza di forze profonde che si scontrano caoticamente in questo sfortunato paese: l’ossessione americana per la stabilità dei rifornimenti petroliferi dal Medio Oriente, il conflitto tra Arabia Saudita e Iran, la presenza di Israele, le ambizioni regionali della Turchia, il desiderio di indipendenza dei curdi, la nascita di uno stato islamico in territori a cavallo tra Siria e Iraq.

Tutto questo, insieme alle speranze deluse di democratizzazione, ha fatto della Siria il terreno di una guerra di tutti contro tutti.

L’OSSESSIONE americana per il petrolio mediorientale era all’origine prima del sostegno all’Iraq contro l’Iran nel 1980 e poi del tentativo neoimperiale culminato nell’invasione dello stesso Iraq nel 2003. Naturalmente, il progetto di installare una democrazia a Baghdad non poteva che fallire per una varietà di ragioni, di cui la prima è che «Non è più possibile per un popolo governarne un altro per decenni, contro la volontà dei governati, senza incontrare una resistenza significativa», come ha scritto il politologo conservatore Michael Mandelbaum.

La seconda ragione è che il processo di ricostruzione di uno stato dopo il rovesciamento del regime precedente non può essere realizzato con successo da una potenza esterna. Lo si è visto nel caso della Libia dopo il 2011, che ci tormenterà per decenni. Lo si vedrebbe in Siria, se Assad se ne dovesse andare senza un accordo di tutte le forze in campo.

OBAMA AVEVA RESISTITO alla tentazione di ripiombare nel calderone mediorientale con un intervento militare su larga scala in Siria, anche al prezzo di dare l’impressione di non avere una politica e di lasciare l’iniziativa a Turchia e Russia.

OGGI IL PETROLIO non è più un problema (grazie al fracking gli Usa producono più dell’Arabia Saudita) ma i missili della settimana scorsa sono la prova che a Washington si crede ancora nell’uso della potenza militare a scopo dimostrativo, per ribadire che gli Stati Uniti sono l’unica vera superpotenza e farsi rispettare da Corea del Nord, Russia e Cina (la scortesia di bombardare la Siria nelle stesse ore in cui Xi Jinping era negli Stati Uniti ospite di Trump era ovviamente voluta).

In realtà l’establishment politico-giornalistico della capitale americana non capisce affatto i limiti all’uso della forza militare come strumento di politica estera: due anni fa un giornalista di Cnn chiese a Obama perché rifiutava di intervenire in Siria ponendo questa domanda: «Why Can’t We Take Out These Bastards?».

L’anno scorso era Hillary Clinton il candidato preferito del complesso militare-industriale perché Trump dava l’impressione di non essere affidabile: nelle primarie del 2016, l’offensiva contro di lui era culminata in una lettera aperta di 121 esperti, un vero Who’s Who delle ultime amministrazioni repubblicane, per ribadire che un presidente degli Stati Uniti non può essere «isolazionista», cioè non può mettere in discussione la tradizionale presenza imperiale ai quattro angoli del globo.

DA PRESIDENTE, TRUMP si è “normalizzato” circondandosi di generali, ha promesso di aumentare il bilancio della Difesa e, ora, bombarda la Siria: senza obiettivi politici precisi ma perché non sa che altro fare. Un’operazione su larga scala con l’impiego di truppe di terra è ovviamente esclusa, l’invio di piccoli reparti di forze speciali potrà forse aiutare gli iracheni a riconquistare Mosul ma non avrebbe certo effetti decisivi in Siria, anche perché gli Stati Uniti non vogliono Assad al potere, ma ancor meno vogliono che a Damasco si installi il Califfato.

Nel fine settimana, sia il consigliere per la sicurezza nazionale Herbert McMaster sia l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley hanno dichiarato che il presidente siriano se ne deve andare ma a Lucca, per il G7, il segretario di Stato Rex Tillerson ha detto che la sconfitta dell’Isis, il cosiddetto stato islamico, è la priorità.

Gli Stati uniti utilizzano i curdi, che però sono interessati solo al loro territorio e vengono regolarmente bombardati dalla Turchia, in teoria un alleato di Washington (il breve flirt di Erdogan con Putin sembra già finito).

POSSIAMO QUINDI prevedere che i bombardamenti «umanitari» continueranno, così come continuano nello Yemen, ma non ci saranno soluzioni diplomatiche perché gli Stati Uniti non hanno obiettivi politici realisticamente perseguibili nella zona, se non continuare a sostenere i regimi autoritari di Egitto e Arabia Saudita, in funzione anti iraniana.

La situazione continuerà a marcire e i profughi siriani a cercare di trovare rifugio in un’Europa che non li vuole.