La campagna presidenziale americana sembra essere degenerata in una rissa senza quartiere. La scorsa settimana, iniziata con il primo scontro diretto fra i candidati, ha visto inasprirsi i toni in un crescendo di accuse insulti e insinuazioni. Un fuoco incrociato in cui il migliore alleato di Hillary Clinton è stata la bocca incontenibile di Donald Trump.

Dopo di una settimana di misoginia a reti unificate, è arrivato il «bombshell» del New York Times e la pubblicazione della dichiarazione delle tasse. I documenti, recapitati anonimamente alla redazione, rivelano che nel 1995 Trump ha dichiarato perdite per 916 milioni di dollari. Un buco che avrebbe potenzialmente potuto scalare da futuri imponibili, e cioè un credito equivalente a 50 milioni di dollari per ognuno degli anni intercorsi.

Il rifiuto a rendere noto il reddito era già stata denunciato da Hillary nel dibattito. «Se non lo fa» aveva detto, «dobbiamo pensare che o non è ricco come dice, o è indebitato all’estero, o non da nulla in beneficenza, o non paga le tasse».

I documenti ottenuti dal Times indicano che sono plausibili tutte e quattro le ipotesi, specie dato che Trump non li ha confutati. Invece la sua campagna si è limitata a sguinzagliare portavoce che hanno definito «geniale» dedurre le perdite, una riprova semmai del know-how richiesto per sanare le finanze pubbliche. Una faccenda del tutto indicativa del livello politico della campagna e della strategia di Trump. Anche questa settimana però è iniziata male per Trump con la rivelazione che il candidato che ama attaccare Obama e Hillary Clinton per il disgelo col «grande nemico» di Tehran, dal 1999-2003 aveva affittato locali ad una banca statale iraniana inserita sulla lista degli enti sanzionati dal governo Usa per aver finanziato i Pasdaran delle rivoluzione. Sono scoop oggettivamente imbarazzanti che sarebbero presumibilmente bastati ad affossare le prospettive di qualunque altro candidato.

Per i sostenitori di Trump sono invece prevedibili October Surprises, come si chiamano qui le rivelazioni esplosive manovrate dall’opposizione per deragliare in extremis un campagna presidenziale, In questa logica ogni plateale scivolone è conferma degli attacchi concertati dalle élites ed i liberal media contro l’unico candidato disposto a difendere al gente comune dai loro interessi oligarchici. È la tesi «inattaccabile» di una classe di elettori che si sente accerchiata e che diffida visceralmente dei fatti riportati dal New York Times, o almeno lo farebbe se mai dovesse leggerlo.

Un paradigma viscerale dove il cieco desiderio di rivalsa sul globalismo «illuminato» prevale sulla indignazione logica, morale o «estetica». Su questo sfondo oggi si affronteranno in dibattito Mike Pence e Tim Kaine. I candidati a vicepresidente difficilmente potranno superare i rispettivi capi.