Nelle primarie americane alla fine è arrivato il martedì da leoni. In questa anomala, convulsa, stagione elettorale che dovrà determinare i candidati che si contenderanno la successione a Barack Obama, il voto in programma oggi interesserà una dozzina di Stati ed il territorio delle isole Samoa americane.

Le primarie presidenziali sono organizzate dai rispettivi partiti con calendari e regole autonome. Ma per entrambi, dopo le votazioni in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina, oggi è il primo giorno in cui numerosi Stati votano contemporaneamente. I seggi apriranno dunque in Alabama, Arkansas, Texas, Virginia, Tennessee, Oklahoma, Colorado, Minnesota, Massachusetts, Vermont, Alaska e Wyoming (questi ultimi due solo per caucus repubblicani).

Per i democratici sono in palio più di un terzo dei delegati necessari alla vittoria finale (880 su 2.383) in una gara che Hillary Clinton conduce attualmente per 544 a 85 delegati. La differenza è maggiore dell’effettiva percentuale di voti con cui Hillary ha vinto finora perché amplificata da un complesso sistema di premi elettorali.

Detto questo, il momentum è chiaramente dalla sua parte dopo la batosta inflitta a Sanders nel South Carolina. E la maggior parte degli Stati che votano oggi sono anch’essi del Sud, quindi con un’alta percentuale di elettori afroamericani fra i quali Hillary ha dimostrato di godere di un vantaggio insuperabile.

Negli ultimi giorni la Clinton ha attraversato il Sud rivolgendosi a numerose congregazioni di parrocchie nere con tono di predicatrice. «Questo è il giorno che il signore ci ha dato. Facciamone il meglio», ha detto alla Greater Imani Cathedral of Faith a Memphis dove i fedeli l’hanno accolta con esclamazioni di «amen».

In molti comizi è stata accompagnata da un gruppo di cinque «madri coraggio» i cui figli sono stati uccisi dalla polizia negli ultimi due anni proclamando di voler metter fine allo «scandalo nazionale». Per la verità Hillary ha anche subìto la contestazione di Black Lives Matter, come la scorsa settimana a Charleston South Carolina dove una giovane militante le ha pubblicamente chiesto di scusarsi per l’annoso sostegno alle politiche di carcerazione di massa che continuano a criminalizzare le comunità di colore.

Ma in generale la southern strategy dovrebbe darle un ampio vantaggio. Bernie Sanders intanto punta alla vittoria nel suo Vermont e in altri roccaforti liberal settentrionali come il Massachusetts e il Minnesota. Ma se dovesse subire altre sconfitte come quella della scorsa settimana la sua campagna potrebbe stentare a riprendersi.

La situazione è ancora più critica in campo repubblicano dove il Super tuesday potrebbe risultare fatale a diversi contendenti e coronare Donald Trump come candidato «inevitabile» di un partito repubblicano a dir poco riluttante. L’ingombrante presenza di Trump continua a dominare le elezioni.

Negli ultimi giorni si è rifiutato di sconfessare David Duke, un ex grand wizard del Ku Klux Klan, ha retwittato una citazione di Mussolini e ottenuto l’apprezzamento di Jean Marie Le Pen, senza che ne risentisse il suo gradimento nei sondaggi. Ora il partito conservatore potrebbe trovarsi «matematicamente» con un candidato che ha accusato Bush dell’11 settembre, si dichiara «neutrale» su Israele e denuncia le assicurazioni sanitarie come sanguisughe, autentiche bestemmie contro l’ortodossia repubblicana.

Continua insomma la cosiddetto hostile takeover (scalata ostile) di un partito repubblicano contro cui Trump ritorce in parte la sua stessa retorica. Dopo aver strumentalizzato per anni la rabbia della base a favore di una deriva destra, il Gop rischia infatti di ritrovarsi con un candidato che denuncia apertamente il sistema blindato dal partito, grandi finanziatori e una gestione del consenso a favore di forti interessi privati.

L’attacco di Trump esprime dopotutto in parte il livore di una base esautorata dalla globalizzazione, impotente e inferocita dalla politica della diseguaglianza.

Nella sua demagogia non c’è posto per ideologie né programmi, una retorica post-logica che trova fertile terreno nel sospetto anti intelettuale coltivato proprio dal destra. «Amiamo gli scarsamente istruiti», ha potuto dire di recente il milardario inquisito per frode immobiliare, ricevendo un’ovazione.

Trump rappresenta una kriptonite per gli avversari le cui obiezioni logiche «non attaccano» proprio in quanto razionali e quindi sospette dall’America «del wrestling» (Trump è da anni produttore e star di questi spettacoli).

Per i suoi avversari -soprattutto il super conservatore Ted Cruz e il “moderato” Marco Rubio (che però è senatore in quota Tea Party) – il voto di oggi potrebbe essere l’ultima opportunità per rallentare l’avanzata di Trump. Per Cruz è essenziale una vittoria decisiva nel suo Texas (il premio più ricco in palio). Rubio che non ha ancora vinto deve dimostrare di poterlo fare o comunque tenere un secondo posto che gli consenta di arrivare ad una possibile vittoria in Florida fra due settimane. Per entrambi le strategie vincenti si stanno assottigliando.