Ride davvero solo la Lega. La maggioranza del «contratto», certo, sulla carta esce rafforzata dai ballottaggi e il centrodestra intero può cantare vittoria, ma anche in questo caso solo sulla carta.

Nei fatti il quadro è ben diverso.

Il solo vero motivo di soddisfazione, per M5S, è che il suo elettorato non «si aggrega» a quello leghista e nelle singole realtà resta compatto. Si schiera senza esitazioni e senza distinguo con la destra nelle regioni ex rosse, dove si tratta di rovesciare i consueti assetti di potere ma si muove all’opposto al sud, dove gli assetti da ribaltare sono i feudi della destra.

Significa che l’offensiva mediatica di Salvini non fa presa, almeno per ora, sul popolo cinque stelle ed è un segnale positivo.

Quasi l’unico, però, insieme alle vittoria di Imola e Avellino, certamente significative ma senza paragone con il dilagare leghista.

Per il resto, infatti, è evidente che la propaganda dagli spalti del governo, quella del Carroccio, funziona. Quella del Movimento invece no.

La ragione dello squilibrio è evidente: le armi di Salvini sparano davvero, anche senza soldi a disposizione. L’Istituto Cattaneo è tassativo: a spostare masse di elettori non è il carisma di Matteo Salvini. Sono i temi che cavalca, l’immigrazione e la sicurezza. I cavalli di battaglia di Di Maio, come i vitalizi e la corruzione, escono invece depotenziati proprio dall’approdo al governo dei 5S.

Per fronteggiare la Lega servono misure costose e infatti a questo punto, dietro le dichiarazioni d’obbligo, Di Maio è deciso a procedere sul «decreto dignità» e sul «reddito di cittadinanza», checché ne dica il ministro Tria. Potrebbe essere questione di vita o di morte.

La sfida è tra Carroccio e M5S ma a farne le spese rischia di essere l’ala «mattarelliana» del governo, quella rappresentata anche da Tria.

L’aspetto più inquietante per i 5S è però un altro: la conferma che sullo scacchiere politico i soci occupano stabilmente una postazione di assoluto vantaggio. Parlare di «trazione leghista» nel centrodestra è infatti ormai solo un pallido eufemismo.

Si tratta piuttosto di egemonia assoluta, di una sproporzione di potere che appare ormai incolmabile tra il partito del ministro degli Interni e una Fi che si trova a competere, come pochi mesi fa sarebbe stato impensabile, perfino con Fratelli d’Italia.

Ufficialmente il partito azzurro fa buon viso. L’ordine di scuderia è sottolineare che Fi resta «essenziale per il centrodestra» e le due capogruppo, Bernini e Gelmini, lo ripetono con parole quasi identiche dopo aver parlato con il Cavaliere. Lo stesso Berlusconi firma una nota per esaltare il successo di «un centrodestra plurale nel quale nessuna forza politica è autosufficiente».

L’obiettivo di Arcore, ora, è pescare nella galassia di «liste e candidati civici senza un chiaro riferimento di partito» per rivitalizzare Fi.

Ma queste sono tutt’al più speranze e buone intenzioni.

La realtà, come chiosa un dirigente azzurro, è che «la vittoria è al 95% della Lega e al 5% nostra».

È un dato che incide a fondo negli equilibri di maggioranza. Salvini può affrontare senza alcuna paura elezioni che è sicuro di vincere con una coalizione quasi completamente colonizzata dal Carroccio.

M5S è in condizioni opposte: quelle di chi è destinato a trovarsi sempre sotto il ricatto di elezioni da cui ha molto da temere.

Soprattutto sulla base del peggiore tra i risultati di questa tornata: quelle due sconfitte a Roma che segnalano un’emorragia nella più importante tra le città conquistate nel momento aureo.