La procura di Roma aspetterà sino all’ultimo momento prima di ricorrere in appello contro la sentenza del processo Mafia Capitale, che ha visto crollare la sua ipotesi accusatoria. Studierà le motivazioni della sentenza (per la verità facilmente prevedibili dal momento che la distinzione tra l’associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione e quella dedita invece a corrompere pubblici amministratori parla da sola) poi presenterà il ricorso.

La sentenza, intanto, ha iniziato a produrre risultati: sono usciti dal carcere 17 condannati per i quali è stata revocata la custodia cautelare ed è passato agli arresti domiciliari l’ex capogruppo Pdl al Comune e in Regione Luca Gramazio. L’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, ha già annunciato che chiederà la stessa misura per il suo assistito. Liberi invece in via definitiva, perché assolti, i due calabresi Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, accusati di essere gli emissari delle ’ndrine. La loro assoluzione è di per sé un colpo duro alle tesi dell’accusa, dal momento che viene così reciso il collegamento diretto tra l’associazione romana e la ’ndrangheta.

Nessuna possibilità di domiciliari, invece, per Massimo Carminati. Il Dap, in compenso sta già preparando la revoca del 41bis, inevitabile, tanto più che la sentenza, oltre a non riconoscere il reato di associazione mafiosa, ha bocciato anche l’aggravante per metodo mafioso. Non si tratta di un particolare: l’aggravante rinviava infatti, sia pur indirettamente, alla «mafiosità» del «Cecato» che stando all’accusa rappresentava di per sé un elemento di minaccia, e di conseguenza un «metodo mafioso». Cadute entrambe le accuse la revoca del carcere duro è di fatto quasi certa.

Le reazioni politiche del Day After, spesso litigiose, riflettono in realtà più gli interessi dei diversi esternatori che non un giudizio limpido e oggettivo sul processo. Rosi Bindi, presidente dell’antimafia, assicura ad esempio che «la sentenza non sconfessa il lavoro della procura». In effetti non lo sconfessa ma ne smentisce i risultati e Bindi lo sa. Però, essendo impegnata nel sostenere quel Codice antimafia che dispone il sequestro preventivo dei beni dei sospetti di corruzione, estendendo la norma in vigore per i sospetti mafiosi, ha tutto l’interesse nel fingere di non vedere la realtà.

Il vero scontro duro, però, si gioca intorno all’affossamento della giunta Marino, anche se quell’increscioso episodio, le dimissioni dei consiglieri firmate dal notaio per ordine di Renzi, viene ricordato apertamente solo dall’Mdp: da Roberto Speranza, secondo cui «prima o poi qualcuno dovrà chiedere scusa a Marino», e da Francesco Laforgia, capo dei deputati, per cui «quella ferita è sempre aperta».

Ma anche chi la vicenda Marino non la cita apertamente, come il presidente del Pd Matteo Orfini, ha in mente quella quando difende a spada tratta l’operato della procura. Tale difesa, non potendo prendere di petto la sentenza di una sezione del Tribunale oltre tutto presieduta da una magistrata certo non ostile alla procura di Roma, passa per un deliberato equivoco: fingere che in discussione ci sia la presenza della mafia a Roma e non uno specifico, pur se importantissimo, caso. «E’ la cosa più sbagliata sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma. A Roma la mafia c’è, forte e radicata», afferma Orfini.

Anche per il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti «la sentenza non può essere utilizzata per dire che a Roma non ci sono infiltrazioni mafiose. Ci sono, denunciate e conosciute». Solo che nessuno ha mai messo in dubbio né che nella Capitale ci siano terminali delle mafie classiche né la presenza di mafie autoctone, come il clan Spada a Ostia. Però è una cosa molto diversa dal dire che le mafie avevano di fatto preso il comando in Campidoglio e non c’è dubbio che quella versione, oggi smentita dalla sentenza, abbia devastato Marino, giustificando la sua tesi: «Senza Mafia Capitale sarei rimasto sindaco».

Ovvio che chi lo ha scalzato pretenda ora che la sentenza non cambia niente. Del fattaccio parla anche il premier Gentiloni, e forse è il meno tendenzioso di tutti: «Quelle degenerazioni non rappresentano il terzo settore».