Tory diviso sulla Brexit, con la paura di Corbyn
Gran Bretagna La premier Theresa May chiude il congresso di Birmingham promettendo la fine dell'austerity. Ma il partito è spaccato sull'accordo per l'uscita dall'Ue e Boris Johnson è l'ultimo dei suoi problemi
Gran Bretagna La premier Theresa May chiude il congresso di Birmingham promettendo la fine dell'austerity. Ma il partito è spaccato sull'accordo per l'uscita dall'Ue e Boris Johnson è l'ultimo dei suoi problemi
Per sdrammatizzare la tetraggine che aleggiava nella sala dove avrebbe tenuto il suo discorso di chiusura del congresso dei conservatori a Birmingham – sembrava più che altro una fiera del fratricidio politico – Theresa May non aveva altra scelta che ricorrere allo spettacolo. Ci voleva un coup de theatre, anzi, de cabaret. Così ieri è entrata in scena ironizzando sulle sue scarse doti di ballerina – derise online in occasione di una recente visita di stato in Kenya – sulle note di Dancing Queen degli Abba, già singolo del nostalgico modernariato europop frettolosamente innalzato nell’olimpo dei classici.
Una pregevole capacità autoironica, che però non sorprende nemmeno tanto in una premier il cui mandato si poggia interamente sull’incapacità dei suoi colleghi di scegliere qualcuno che a) sia meno divisivo di lei; e b) sia disposto a sacrificare la propria ambizione carrieristica sull’altare del fenomeno più tellurico – istituzionalmente, economicamente, geo-politicamente, culturalmente – della storia britannica recente: la famigerata British Exit. Ed è in buona sostanza a questo, oltre alla quasi religiosa devozione al ruolo del tutto aliena al suo rivale numero uno, Boris Johnson (che nella sua interminabile attesa di salire al trono continua a fare il giullare di corte rispolverando vecchie frasi a effetto), che deve l’essere ancora al suo posto Theresa May.
Solo che degli Abba avrebbe fatto meglio a scegliere Mamma Mia, o Sos, e per una serie nutrita di ragioni. Breve riassunto dei disastri precedenti: il suo partito ricorda una frattura scomposta, i lealisti nordirlandesi del Dup, che la tengono al potere per il rotto della cuffia, minacciano di far cadere il governo qualora le sue aperture all’Ue aggravino il rischio di un ritorno del confine fisico con l’Irlanda del Nord; le elezioni anticipate da lei azzardate (male e controvoglia), nel 2017 hanno galvanizzato il Labour; poi quel discorso di chiusura dell’anno scorso, in cui tutto, ma proprio tutto, è andato storto. E ora questo congresso, istantanea di una spirale divisoria, fossilizzato nel disaccordo su come/se uscire dall’Ue mentre il tempo si fionda verso il 29 marzo. Essenzialmente il duello fra due fazioni: da una parte l’impossibile mediazione di opposti nel cui segno May ha concepito l’accordo Chequers; dall’altra, le trombonate tory-neoliberal-nazional-atlantiste irte di latinorum con cui Johnson ha criticato nel suo discorso di martedì lo stesso accordo.
Ma Johnson pare davvero l’ultimo dei problemi di May. Non è alternativa che suoni credibile a tutto il partito, il suo momento pare passato ed è una figura strettamente spettacolare («la sua cocaina è l’attenzione dei media» ha detto recentemente un suo ex-collaboratore). A volte apre bocca ed escono cose nefaste, come quel fuck business (con cui settimane fa aveva terrorizzato il… business) e di cui patisce ancora i danni. Il problema reale di Theresa May e della platea che l’ha mestamente applaudita nel suo “coraggioso” discorso è appunto Corbyn, il leader di un partito socialista mai come oggi così credibilmente vicino al potere. Che si tiene volutamente – pur se con fatica – vago su Brexit, mentre i Tories ne sono dilaniati.
Secondo un calcolo di Bloomberg, durante questo congresso, sedici prominenti Tories hanno citato Corbyn per 36 volte nei loro discorsi, in testa il moderato Cancelliere Hammond (sei volte) seguito dal Brexit secretary Dominic Raab (quattro). Per questo, dopo aver ribadito il ruolo mercatista e liberista dei Tories – back (non fuck) business ha esortato, in mezzo al rumoroso sollievo della sala – May si è inoltrata nel territorio “sociale” nel quale il New Old Labour di Corbyn ha prefigurato i più inquietanti e promettenti terremoti – nazionalizzazioni, azionariato operaio, investimenti pubblici – annunciando la fine dell’austerity che da otto anni attanaglia il paese.
Fermo il prezzo della benzina per il nono anno di seguito allora, promesse di edilizia popolare e altre misure che rappresentano quanto di più vicino al “populismo” i Tories riescano ad andare. Ma insufficienti a un partito il cui elettorato, confuso dall’avventurismo di certi suoi esponenti, continua a invecchiare e che, a differenza del Labour, non sa rivolgersi ai giovani che lo identificano con una Brexit che non comprendono e rifiutano. Per quanto abbiano accusato Corbyn di paleontologia politica, i conservatori si scoprono a loro volta un partito con tante vecchie idee, un elettorato di anziani e vecchie, dolciastre canzoni pop.
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