La decisione del Papa di cancellare la pena dell’ergastolo e di introdurre nell’ordinamento penale vaticano il reato di tortura, adeguandosi alle norme internazionali sancite dalla Convezione delle Nazioni Unite, è un segnale. Un segnale ai governi del mondo, oltreché a quelle gerarchie ecclesiali troppo spesso silenti davanti alla violazione dei diritti umani, se non addirittura conniventi con quei regimi ma anche quelle democrazie che la praticano, più o meno sistematicamente. L’Italia, dove la tortura non è ancora punibile, è uno di questi Paesi. Anche se a ricordarlo ieri è stata solo l’associazione Antigone, Rifondazione comunista e un paio di parlamentari Pd.

Ratificata da 25 anni la Convenzione Onu contro la tortura, malgrado i richiami e le sanzioni europee, malgrado le sentenze di due diversi tribunali arrivate negli ultimi mesi – violenze a Bolzaneto e morte di Stefano Cucchi – che hanno annotato le difficoltà processuali derivanti dalla mancanza della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, l’Italia continua a tergiversare. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo.

Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici – di ispezione e monitoraggio – e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali.

Eppure non sono pochi i disegni di legge depositati in Parlamento: al Senato c’è quello di Felice Casson che nella scorsa legislatura si è bloccato ai primi passi in commissione Giustizia, e alla Camera ce ne sono almeno un paio, firmati da Luigi Manconi, Sel, M5S. Ma l’accordo tra le forze politiche è difficile da raggiungere, soprattutto su un punto: delitto generico o delitto proprio del pubblico ufficiale? Da noi è forte l’opposizione di certi sindacati di polizia e delle lobby militari a inquadrare la fattispecie di reato nell’ambito del delitto specifico, ossia commesso da persona nel ruolo di rappresentante dello Stato. E certa politica non riesce a emanciparsi.

Anche su questo punto siamo sempre più isolati, in Europa. Agli antipodi dei Paesi dove la tortura è un delitto specifico (Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria), come scrive Patrizio Gonnella nel suo «La tortura in Italia» edito da DeriveApprodi. E ora superati anche dal Vaticano.
È evidente che il Parlamento ha bisogno di una spinta per procedere sulla via della civiltà giuridica. Il disegno di legge di iniziativa popolare messo a punto da Antigone, Fuoriluogo, Unione delle camere penali e altre associazioni, ha quasi raggiunto le 50 mila firme necessarie. Si potrebbe partire da qui, per scuotere la politica appaltata o distratta da problemi giudiziari eccellenti.