Torino a motore spento
Da «rospo» della città fabbrica a «principe» dell’innovazione, le classi dirigenti e le maggioranze di centrosinistra hanno tentato la trasformazione attingendo a piene mani della rendita urbana. Esemplare il progetto Spina centrale, su aree già occupate da Fiat, Michelin, Savigliano
Da «rospo» della città fabbrica a «principe» dell’innovazione, le classi dirigenti e le maggioranze di centrosinistra hanno tentato la trasformazione attingendo a piene mani della rendita urbana. Esemplare il progetto Spina centrale, su aree già occupate da Fiat, Michelin, Savigliano
I mutamenti, avvenuti a Torino e in altre città nel trentennio 1980-2010, conseguono a processi collegati di lunga data, favoriti dal «sonno della ragione, in cui è caduta la sinistra. Il taglio progressivo dello stato sociale; il ridimensionamento drastico del potere e della remunerazione del lavoro, non coerenti con gli obiettivi di valorizzazione del capitale; l’affermarsi della centralità del mercato, quale elemento regolatore dell’economia e della società; la riduzione del carico impositivo dei ceti privilegiati, nell’insieme, sono le ragioni, che hanno inaugurato una nuova era mondiale e quindi inciso profondamente anche sulla realtà torinese. La deindustrializzazione, indotta nei paesi sviluppati, ha mutato in breve le componenti economiche e sociali, storicamente caratterizzate dalla produzione metalmeccanica, concentrata a Torino e in numerose località della provincia.
In coerenza con lo spirito del tempo, contrario a qualsiasi forma di programmazione, praticando quindi la competizione di tutti contro tutti, Torino ha tentato di trasformarsi, da «rospo» della città fabbrica, a «principe» dell’innovazione, qualificato per assurgere a un rango elevato nell’agone, aperto fra le città.
Così le classi dirigenti e le maggioranze di centrosinistra, che dal 1993 (sindaci Castellani, Chiamparino e Fassino) reggono le giunte torinesi, hanno tentato di sostituire il motore industriale con nuove attività. Di qui proviene l’utilizzo a piene mani della rendita urbana, considerata al pari di un giacimento naturale, nel tempo accumulato dalle proprietà nei vuoti (valutati in nove milioni di metri quadrati), aperti dalle fabbriche disattivate, ubicate a ridosso degli scali e dei tracciati ferroviari, che solcano da nord a sud settori centrali della città. È parso altresì decisivo potenziare la tradizionale cultura politecnica, la ricerca scientifica torinese, a favore di «innovative» produzioni industriali, senza dimenticare il turismo (le Olimpiadi invernali del 2006) e le attività del tempo libero, offrendo, nel cuore della città, spazi per il divertimento, per l’incontro anche chiassoso, sconosciuti all’a plomb, proprio della compostezza un po’ arcigna della tradizione torinese.
Le scelte, gelate dall’attuale crisi economica, nell’insieme non hanno conseguito gli obiettivi attesi di rilancio occupazionale. C’è da chiedersi se voler trasformare la realtà locale può avere successo senza il concorso di programmi coerenti, quanto meno nazionali. In ogni caso, in nome della falsa autonomia locale, al centro della politica torinese da trenta anni campeggiano le scelte di assetto urbano, rappresentate dal piano regolatore dell’offerta (1986-1995), diretto dalla «Gregotti associati».
Il piano fa propria la volontà di attrezzare la città, in vista della competizione, aperta fra le maggiori città italiane ed europee, attraverso il potenziamento delle funzioni di rango elevato: il commercio, la finanza, la ricerca privata, il turismo, destinazioni per altro quantitativamente e tradizionalmente assai contenute nella realtà torinese.
Incentrato sul riciclo delle aree già industriali e sull’incremento di densità di tutte le aree trasformabili, il piano è costruito per offrire agli investitori (il marketing urbano) in primo luogo la possibilità dello sfruttamento fondiario; questo non per soddisfare le esigenze di spazio, proprie delle attività economiche e della domanda sociale (i servizi collettivi), quanto per favorire operazioni immobiliari, cui non di rado tende a partecipare anche il Comune, attraverso il ritorno economico (non solo sotto forma di oneri di urbanizzazione), derivante dalle possibilità edificatorie, anche di strade e parchi, opportunamente inseriti nelle operazioni di trasformazione urbana.
È significativo al riguardo l’accordo Ferrovie, Regione, Comune, siglato nel 1991, prima e al di fuori della formazione del piano. Come se le aree comprese nella città fossero merce, da remunerare con logica privatistica, e non luoghi, da comporre nel piano per qualificare la città. Con quell’accordo fu attribuita una potenzialità edificatoria, non solo su aree e scali in disuso, ma anche sui tracciati ferroviari in esercizio, assegnando a essi (da incassare a tempo debito) un terzo dell’indice di densità, previsto per i lotti, dismessi dagli impianti ferroviari. Questo indice, in realtà molto elevato, tanto da essere poi ridotto per rendere fattibile l’attuazione delle previsioni, fu poi assunto dal piano regolatore come numero magico, valido per tutti gli interventi sulle aree libere o liberabili.
Coerente con le scelte richiamate, e fiore all’occhiello del piano, è l’insieme delle aree (la Spina Centrale), dell’estensione di circa tre milioni di metri quadrati, già occupati da industrie (fra cui Fiat, Michelin, Savigliano), limitrofe al tracciato ferroviario, destinato all’interramento, in parte realizzato. Nella Spina il piano prevedeva di insediare ventitremila abitanti e trentaduemila addetti al terziario, sostituiti, in sede di attuazione, da abitanti per circa due terzi, a causa della carenza in Torino di attività di servizio. A parte la scelta contraddittoria di concentrare quelle quantità nel luogo, più congestionato, il centro, la violenza maggiore, inferta alla città dalla Spina, è data dal fatto che quel disegno, reclamizzato e ingannevole (illustrava una città immersa nel verde, poi smentita dagli interventi concreti), è totalmente avulso dalle condizioni esistenti nel territorio limitrofo, rappresentato dall’insieme di settori, comprendenti il quindici per cento dell’intera estensione urbana, ma abitati da un terzo della popolazione torinese e dalla metà delle attività terziarie. La Spina in questo modo ha condannato senza appello quei settori a rimanere nelle condizioni ambientali, dettate dalla storia lunga e travagliata delle periferie torinesi, cioè in pesante carenza di spazi per servizi sociali, senza poter partecipare a miglioramenti, che avrebbero potuto derivare solo se si fosse usata a loro vantaggio la trasformazione di estese aree industriali di antica data. Proprio in quei settori il piano con le indicazioni, di cui è portatore, ha demolito ormai e prevede di demolire ulteriormente le fabbriche (perché non utilizzabili per nuove funzioni?), molte delle quali prestigiose e di grandi dimensioni. Quasi la cultura torinese dominante, servendosi delle nuove architetture, per altro di forme spesso assai discutibili, volesse dimenticare e far dimenticare la tradizione industriale della città.
Così, malgrado continui impegni, assunti a favore del coinvolgimento dei comuni della provincia nelle scelte di governo del territorio (impegni inseriti nel piano, ribaditi da tutti gli amministratori, ultimo dei quali il sindaco Piero Fassino), Torino prosegue nella politica di concentrazione sul proprio territorio degli investimenti in infrastrutture e dello sfruttamento immobiliare, per quanto realizzabile nelle condizioni odierne. Ne è testimone la recente delibera comunale, che annoda, in un nuovo elenco di interventi, quindici luoghi di trasformazione nella città, collegati fra loro solo in base alla scelta di procedere nello sfruttamento immobiliare, in vista del ritorno di risorse anche a favore del Comune. Pertanto, nonostante l’esistenza in Torino di migliaia di alloggi nuovi, rimasti vuoti, recentemente sollevati per legge dal pagamento dell’imposta municipale, quella delibera prevede di insediare ulteriori fabbricati per ventitremila abitanti e per circa venti mila posti di lavoro nei servizi: come si vede nulla di nuovo sotto il sole.
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