Non si può non essere d’accordo con Thomas Tsalapatis (1984) quando afferma che solo chi scrive poesia può decidere cosa sia poesia e cosa non lo sia. E lui lo status del poeta se lo rivendica sino in fondo, seppur consapevole della differenza e della distanza con i giganti della poesia greca contemporanea (Elytis, Seferis, Ritsos, Kavafis). «È poeta- ha dichiarato Tsalapatis- chi propone un modo nuovo (e ogni volta nuovo) di trattare il linguaggio e le parole, e quindi la realtà».

E nessun equivoco ha motivo d’esistere leggendo Alba, la raccolta di recente pubblicata da Mama Edizioni con traduzione di Viviana Sebastio, prefazione di Davide Rondoni e introduzione dello stesso Tsalapatis che ricostruisce il cammino di questo testo nato come ‘esercizio poetico sull’archetipo letterario della città’ e su ciò che succede nell’arco di una settimana ma poi diventato anche uno spettacolo teatrale.

Se nel precedente L’alba è un massacro, signor Krak il lettore poteva avere qualche dubbio sulla natura poetica del linguaggio di Tsalapatis sfiorato da intenzioni descrittive, narrative o di prosa poetica, in Alba è più evidente la volontà esplicita del poeta di intervenire sulla struttura e sulle forme del linguaggio poetico, di cambiarne paradigmi e statuto, di eliminarne stereotipi e pregiudizi, di superare confini e recinti. Cercare qui storie e significati credibili e coerenti è opera vana, dal momento che ogni incipit narrativo si ribalta e si rovescia nel non senso, nella ironia e nella parodia, nel gioco immaginativo, nel paradosso, nel superamento delle coordinate spazio temporali. Con L’alba è un massacro il lettore è alle prese con un chiodo che cresce in fronte al signor Krak sul quale il medico appende un quadro, con un’orda frastornante di Unni che irrompono nella sua stanza, con l’Ombra che lavora in uno stabilimento balneare e che fa dispetti ai villeggianti segando gli ombrelloni, finché non incappa in un branco di neonazisti oppure alle prese con un viaggio in Bulgaria per far esplodere ponti.

Alba è sì il nome associato a volte a un quartiere, a una città oppure a una ragazza ma è soprattutto il passepartout che permette di costruire un mondo capovolto e una lingua rovesciata che contiene in sé immagine e suono. Qui ‘gli uccelli affondano come pietre nel cielo’ e ‘le salite rifiutano di farsi discese’, qui esiste il ricordo dell’età di domani, la memoria del vissuto e la memoria di ciò che deve ancora accadere, il tempo si districa dal tempo e ‘l’Oriente si scambia sulla mappa con l’Occidente’, ‘le maschere si travestono da persone’, e c’è il bosco capovolto che ‘distende le radici al cielo, i rami verso la terra’, il fumo che è ‘perfetta grafìa del caso’, gli orologi che ‘non sanno dirti niente del tempo’.

Non-storie, quindi, ma fragili improbabili e insensati flash, in cui convivono vero e falso, sogno e realtà, presente e passato, in cui ‘nessuno sa se tutto ciò abbia un significato’. Può sembrare azzardato un paragone con l’avventura poetica del nostro Carmelo Bene ma anche in Tsalapatis scompare non solo il confine fra prosa e poesia ma viene azzerata l’equivalenza tra poesia e poesia lirica, scompare ogni ridondanza o retorica affabulatoria. Emerge piuttosto la sottrazione, l’essenzialità del verso o della frase che esplora l’alto e il basso, il sublime e l’horror vacui esistenziale, la solitudine e il naufragio del sé che scompare e diventa invisibile a noi stessi. Una scrittura come quella beniana, asincrona ed afasica dove prevale la necessità del dire e del pensare in una lingua poetica originale e sorprendente che apre sempre scenari inattesi.

Tsalapatis ha studiato teatro all’Università e le sue poesie sono diventate anche delle performance teatrali. Gli chiediamo quale vocazione sia prevalsa in lui, se quella poetica o quella teatrale: «Scrivo e leggo poesie da quando avevo 12 anni, ci dice, e non ho mai smesso. Sono arrivato al teatro da poeta. La mia prima opera teatrale è stata in realtà una sintesi poetica di diverse immagini dialogiche che Theodoros Terzopoulos mi aveva chiesto di scrivere. Lui aveva letto alcuni dei miei libri e mi ha chiesto di scrivere qualcosa che si avvicinasse a queste poesie.

Com’è stata la relazione con Theodoros Terzopoulos e con il teatro in generale?
Terzopoulos è un grande maestro, probabilmente l’artista più importante che abbiamo in Grecia oggi. Lavorare con lui è stato un sogno e anche una grande scuola ad ogni livello. Le opere teatrali che ho scritto hanno sempre un elemento poetico. Non dimentichiamo che il teatro è stato tutt’uno con la poesia fino alla fine del XIX secolo, prima che arrivasse il realismo. La principale differenza tra scrivere poesie e scrivere opere teatrali è la solitudine del poeta quando costruisce il suo testo. In teatro dipendi dal pubblico, dalla sua presenza e comprensione. E anche il modo in cui scrivi deve funzionare con gli attori che dicono quelle parole. Il testo viene filtrato dal punto di vista del regista. Quindi quando scrivi teatro c’è sempre la presenza dell’Altro. Quell’elemento crea la forma, la necessità di una trama, di personaggi, di dialoghi particolari. Nella poesia devi inventare a solo la tua forma.

In «Alba» c’è una pagina dove parli di Nietzsche e dei Nietzsche. Condividi il suo pensiero nichilista? Perché il tuo blog si chiama Groucho Marxism?
Penso di aver sempre preferito le parole di Nietzsche alle sue idee. C’è un certo elemento poetico che trovo molto cruciale nel suo pensiero. In materia di filosofia mi considero un marxista gramsciano in un mondo per lo più assurdo. Il mio blog si chiama Groucho Marxism perché l’elemento dell’umorismo come filosofia, come atto di rovesciamento dello status quo e come modo di intendere la vita è fondamentale per me. Groucho Marxism è anche la citazione di un vecchio slogan del maggio ‘68.

I Greci sono gli eredi di un patrimonio culturale unico e straordinario. Che rapporto hai con un passato così importante?
È una relazione complicata. L’eredità dell’antica Grecia è un pensiero e un’arte costantemente presente. Nelle rovine, nei musei, nei teatri ma anche nella nostra lingua, nelle nostre città, nel paesaggio. Ciò crea una grande antitesi con la situazione attuale in ogni settore della vita. La nostra identità è sempre schizofrenica e divisa in due. Tra la magnificenza dell’antichità e i tempi moderni, tra Oriente e Occidente, tra le montagne dei Balcani e il mare del Mediterraneo. Per molti anni ho sentito che l’antica eredità era un peso, qualcosa di irraggiungibile. Ora penso che il vero fardello sia la reinvenzione del nostro passato. Un nuovo modo di descriverlo e utilizzarlo nella nostra arte ma allo stesso tempo un modo nuovo in cui comprendiamo noi stessi.

Sei considerato uno dei principali protagonisti della generazione della crisi. Cosa ricordi della crisi, gli aspetti positivi e negativi?
Siamo in uno stato costante di crisi prolungate. Per noi in Grecia tutto è iniziato all’inizio del 2008, con l’omicidio da parte della polizia del quindicenne Alexandros Grigoropoulos e le rivolte successive. Allora eravamo all’inizio, eravamo tutti insieme e c’era speranza, un grande entusiasmo per le azioni e la creazione. Ma da allora la società è cambiata, siamo cambiati. Penso che quello che dovremmo fare ora, sia a livello politico che artistico, sia mantenere questa posizione. Fino a quando non si reinventa. Questa volta serve la soluzione ai nuovi problemi del nostro mondo che muore.