Di The Nightingale, si è parlato molto in questi giorni e già prima della Mostra come dell’unico titolo di una regista donna, almeno nella competizione internazionale, polemica strumentale su «quote» di per sé fastidiose e talvolta offensive – che non considerano la profondità di uno stato culturale e politico ma sembrano piuttosto evitare di affrontarlo. Prova ne è l’insulto a fine proiezione, il solito che si riserva alle donne, «puttana» – da uno dei giornalisti in sala, il quale poi si è scusato sempre via social (più vita meno facebook farebbe bene…) dicendo che il suo è stata una reazione motivata da un «pensiero irrazionale» il che per ciò che rivela al di là del tizio in questione è molto peggio.

La regista, Jennifer Kent, che in conferenza stampa ha voluto chiudere la polemica, è un nome amato dalla cinefila «degenere», il suo film precedente The Babadook, è stato un piccolo culto tra gli appassionati di horror e non solo, perciò al di là della questione di gender le aspettative erano tante. Purtroppo The Nightingale non ne mantiene quasi nessuna, tra i detrattori c’è anche chi uscendo dalla proiezione ha insinuato un colpo basso al cinema delle donne e chi è passato – come leggo sui social – agli insulti (su questo ci sarebbe molto da dire) che si riservano al femminile.

Il primo errore di Kent, anche se può sembrare strano, è proprio l’horror, il genere che le appartiene e che ama, reso incapace di restituire l’orrore del massacro colonialista degli inglesi in Tasmania – e più generalmente in Australia – che fondano il loro impero sul genocidio dei nativi, sterminati e quando sopravvissuti ridotti in schiavitù, miseria,dipendenza dall’alcol, privati di lingua e identità: annullati. Siamo nell’Ottocento – anche questo è un film in costume come quasi tutti nel concorso della Mostra – Clare (Aisling Franciosi) ex detenuta sull’isola che ospita la grande colonia penale britannica è schiava di un mostruoso giovane ufficiale inglese che la considera sua proprietà in un legame vittima/carnefice e sotterraneo, appena accennato ma poco cercato dalla regia.

La ragazza è irlandese, odia gli inglesi forse come li odia Billy, il giovane aborigeno che l’accompagnerà nella suo viaggio di vendetta e di scoperta di un paesaggio attraversato da una violenza che sembra rispecchiare quella vissuta dalla donna. È su questa specularità che fonda la narrazione Kent: una ragazza bianca ma donna e senza documenti che in una terra di machismo dominante tra ogni classe sociale, ricchi o poveri, damerini o gaglioffi, diventa un corpo da stuprare, picchiare, una «cosa» («it» dirà il tenente di lei) da possedere, che non ha alcun diritto e non può ambire a essere felice.

E la caccia all’uomo offre la possibilità di una reciproca conoscenza, un lento avvicinamento tra due marginali, due dolori grandissimi, la scoperta per la giovane donna di un mondo diverso, quello dei nativi, da tutto loro ignorato, in cui si esprime un profondo legame con la natura, il rispetto per i suoi abitanti, piante e animali, e la condivisione di un nemico comune, gli inglesi, che hanno calpestato anche la sua Irlanda come questa. C’erano molte potenzialità in questo film a cominciare dallo sforzo della regista – nata a Brisbane, in Australia – di confrontarsi con l’origine del suo Paese mai resa sinceramente consapevolezza in un immaginario collettivo – certo poi come ci dice Morris a proposito della Hollywood di Bannon è sempre questione di punti di vista – attraverso il genere appunto. Kent non riesce però a decostruirli – pensiamo alla raffinata «manipolazione» che ne fa Guadagnino – e rimane impigliata sulla superficie, caricando spruzzi splatter, sangue e efferatezze, che offuscano tutto il resto.

Ci sono i «buoni» – destinati a disgrazia sicura – e ci sono i «cattivi» quelli che il pubblico applaude quando gli mozzano la testa. Al di fuori dello schema, in un inesistente fuoricampo rimane tutto il resto, ciò che fonda la «nascita di una nazione», sepolto tra qualche «inglese» democratico e molte buone intenzioni.