La tassa sulla moschea: il progetto del governo Merkel per sganciare l’islam tedesco dall’orbita di Turchia e Arabia Saudita. Una norma federale sul modello della Kirchensteuer (l’imposta sul culto pagata da cattolici e protestanti) ufficialmente sul tavolo della Grande coalizione. Una mossa politica bipartisan, anticipata da Die Welt, ieri pubblicamente confermata dai dirigenti democristiani e socialdemocratici.

«Un passo importante per emancipare i nostri musulmani dagli Stati stranieri» riassume Thorsten Frei, deputato della Cdu, cattolico praticante. Ma plaude all’idea anche la Spd secondo cui la nuova tassa «aiuterebbe l’islam in Germania a diventare indipendente» come spiega il parlamentare Burkhard Lischka.
La tassa per finanziare le moschee, a carico dei fedeli, piace anche al simbolo dell’islam progressista, Seyran Ates, che a Berlino dal 2017 gestisce la sala di preghiera intitolata ad Averroè e Goethe dove uomini e donne ancora si inginocchiano insieme. «I bisogni della comunità devono essere pagati dai suoi membri» è la sua linea teologica, al di là della politica.

Eppure già si scorge il peccato originale della Kirchensteuer musulmana. Da Monaco, via Suddeutsche Zeitung, si alza la critica alla tassa sul culto come «strumento politico per attuare la riforma religiosa».

La sintesi è che «l’obiettivo è buono ma non i mezzi»; e la realtà restituisce un progetto concepito dalla politica, non dalle comunità musulmane.

In ogni caso il governo stabilisce il punto che lo Stato raccoglie i fondi e poi li distribuisce alle centinaia di associazioni che gestiscono le moschee. Significa fine delle milionarie donazioni provenienti dall’Arabia Saudita; vuol dire stop all’autonomia di centri culturali che dipendono in tutto e per tutto dal “Ditib”, il braccio operativo degli Affari religiosi del governo Erdogan. Attualmente i musulmani nella Bundesrepublik sono circa quattro milioni e mezzo. Tra gli obiettivi politici della cancelliera Angela Merkel, avviata alla fine del quarto mandato, c’è il recinto dell’islam che «appartiene alla Germania» e per questo deve essere “sussunto” in tutti i sensi.

Nella sorpresa generale è diventato anche il nuovo slogan del ministro dell’Interno Horst Seehofer. A fine novembre l’ex presidente Csu si è presentato all’annuale Conferenza tedesca sull’islam (Dik) spiegando che «i musulmani fanno parte della Germania». Una retromarcia in piena regola dai tempi della difesa delle radici cristiane che hanno «plasmato la Germania» e la prova che i suoi masterplan su base etnica contano meno delle manovre in politica estera.
Il governo di Berlino rimane intenzionato a gestire frontalmente le relazioni bilaterali con Ankara e Ryad, prosciugando il loro bacino di riferimento in Germania. Niente più petrodollari a pioggia sulle iniziative culturali delle moschee locali, nessun flusso di denaro incontrollato dietro le manifestazioni “autofinanziate” a favore di Erdogan (la prima a vietarle fu l’ex governatrice della Saar Annegret Kramp-Karrembauer, attuale segretaria della Cdu), e zero ingerenze nelle elezioni locali.

Anche se «i musulmani hanno gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini» sottolinea Seehofer dal palco della Dik, peraltro istituita dall’attuale presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble nel 2006, quando era ministro dell’Interno.

Un centro nevralgico per la Germania alle prese con l’immigrazione multi-forme. L’ambito dove discutere la pastorale islamica e la teologia insegnata nelle università tedesche, ma anche la torre dove controllare tutto ciò che si piega verso la Mecca.