«Tashweesh» è una parola araba che significa frastuono, confusione, oppure mormorio, come quello di molte voci nella folla. Si chiama così il festival che viaggia tra Tunisi, Bruxelles e Vienna e che prende spunto proprio da quel brusio per creare un tappeto sonoro artistico comune a paesaggi urbani così diversi fra loro. Questo vociare si diffonde in diversi luoghi della medina di Tunisi in un caldo settembre, orchestrato dalle curatrici e artiste Tania El Khoury e Bochra Triki. Soprattutto va in scena a L’Art Rue, un’associazione che ha sede a Dar Bach Hamba, palazzo del diciassettesimo secolo nel cuore del suq El Blat, lo storico mercato degli speziali. Mentre scrivo, a pochi chilometri da qui nel sobborgo di Douar Hicher i tunisini sono in piazza a manifestare per le condizioni economiche che peggiorano senza scampo, per i prezzi che si alzano, perché nei supermercati – perfino quelli nel centro della capitale – manca tutto, dall’acqua in bottiglia allo zucchero. In questi stessi giorni, il presidente Kaïs Saïed ha promulgato unilateralmente un decreto legge che disciplina i reati informatici e la diffusione di fake news, veicolando di fatto il controllo e la censura della libertà d’espressione in nome della sicurezza nazionale e inasprendo le già forti tensioni sociali.

Partendo da questa cornice complicata eppure suggestiva, Tashweesh porta per tre giorni nella capitale tunisina spettacoli, workshop, gruppi di lettura, proiezioni e concerti: si parla di stereotipi, utopie queer e transgender, di genere e corpi, spazi pubblici, strategie attiviste e soprattutto rivoluzioni femministe. Ne ho parlato davanti a un caffè nel foyer di El Teatro, uno degli spazi occupati dal festival, con Tania El Khoury, co-curatrice di Tashweesh, artista libanese e direttrice dell’OSUN Center for Human Rights & the Arts al Bard College di New York

Tashweesh è un festival che si tiene in tre città diverse fra Europa e Nord Africa. Proprio ieri nell’«opening lecture» Nikita Dhawan ha parlato della dimensione collettiva e internazionale che i movimenti femministi dovrebbero avere. Ho l’impressione che Tashweesh voglia ridefinire lo spazio pubblico per l’arte anche come una questione politica. È questa la vostra intenzione?
Basta guardarsi intorno: ci sono molti festival e performance e in genere un grande interesse nell’arte, e soprattutto nell’intersezione tra le pratiche artistiche e il dibattito sociale e politico. Tashweesh è proprio uno di questi, è davvero uno dei festival il cui interesse è questa interazione tra attivismo, pratica politica e pratica artistica ed estetica. Abbiamo creato uno spazio in cui noi – e assieme a noi anche studiose, ricercatrici, attiviste, organizzazioni e artiste – possiamo abitare nello stesso spazio, presentando il nostro lavoro fianco a fianco. Io e Bochra Triki siamo guest curator in questa edizione di Tashweesh, ma posso dire che già nella prima edizione del festival si percepiva questa condivisione di pratiche e visioni tra attivismo e arte.

Tunisi è una città importante per l’arte contemporanea nella zona del Nord Africa e del Medio Oriente, e per il Mediterraneo in generale. Eppure è difficile decostruire lo sguardo coloniale sulla Tunisia, per chi guarda da altrove e la considera margine. Quali sono le lotte delle donne e artiste che abitano questi margini e inciampi della storia?
Penso che Tunisi abbia una produzione artistica molto vivace, spesso in connessione e anche in opposizione alla visione europea e al «white gaze»; allo stesso tempo è anche concentrata sulla sua dimensione locale e autoreferenziale. Spesso si usa nelle performance il dialetto tunisino. Qui l’arte in lingua araba ha una lunga storia e, specialmente nel teatro, ha un pubblico molto ampio. Io non sono tunisina, e ho girato in lungo e in largo il mondo, ma un posto così non l’ho mai visto. A Tunisi l’arte non è soltanto legata a una nicchia borghese. Qualche anno fa mi è capitato di invitare a uno dei miei spettacoli l’addetta alle pulizie dell’albergo in cui stavo, e lei mi ha riposto: ma certo, io vado a tutti gli spettacoli. E sono rimasta sorpresa, perché nella mia testa la stavo invitando altrimenti lei non avrebbe avuto accesso allo spettacolo, non se ne sarebbe potuta interessare da sola. Parliamo di uno spettacolo sperimentale: perché mai sarebbe dovuta venire, mi sono chiesta. In fondo, in qualunque altra parte del mondo è così che funziona. E invece non solo lei è venuta, ed è tornata a vedersi lo spettacolo diverse volte, ma mi ha persino mosso delle critiche puntuali in relazione ad altri spettacoli che aveva già visto. Lo tengo sempre a mente: qui a Tunisi la relazione che le persone hanno con l’arte non è un lusso, è uno spazio comune e lo è sempre stato. Tutti possiamo imparare qualcosa da questa città e dalla relazione tunisina con l’arte. Riguardo al white gaze e all’orientalismo come filtro, posso dire che il posizionamento del nostro lavoro, della nostra arte, il fatto stesso che le sedi di Tashweesh siano una in Nord Africa e le altre due in Europa, è il modo che abbiamo per raccontare la produzione di artiste arabe. Facendo a pezzi lo stereotipo della donna araba come eterna vittima, una dinamica che non vogliamo rinforzare, figlia di una visione coloniale del femminismo.

Dalle promesse e le speranze delle primavere arabe, e fino a questi giorni di intensi conflitti sociali, molte energie sono state spese nella produzione artistica. Pensi che la Tunisia non abbia ancora sprigionato tutto il suo potenziale?
Non credo di poter parlare per la Tunisia o per il Nord Africa in generale. Quello che posso dire è che non è specifico delle primavere arabe che in momenti di grande cambiamento politico ci si rivolga anche all’arte; la Tunisia poi ha avuto lunghi decenni di dittatura e all’improvviso le persone hanno avuto la possibilità di formare collettivi e organizzazioni, c’è stato un boom creativo. Tutto è ancora in divenire e noi siamo proprio nel posto in cui sta accadendo, in cui le persone cercano di trovare la voce, il proprio linguaggio collettivo mentre le dinamiche intorno stanno cambiando.

L’attivismo politico, il femminismo e l’arte convergono verso la creazione di una resistenza politica e culturale: pensi che l’arte ne sia il catalizzatore?
Non credo che l’arte sia strumento dell’attivismo, né che l’attivismo sia allo stesso modo strumento dell’arte; è vero che qualcuno usa l’arte solo a vantaggio dell’attivismo, oppure la politica come spinta per il proprio lavoro artistico. Io personalmente credo, e penso che Bochra sarà d’accordo, che queste due pratiche siano parallele e intrecciate, possano nutrirsi a vicenda. Credo sia il modo più interessante di guardare alle pratiche artistiche e politiche attraverso i progetti stessi, e qui a Tashweesh le performance, come quelle di Rima Najdi, Salma Said e Miriam Coretta Schulte.

Sia tu che Bochra avete fatto esperienze in altri festival e, proprio qui a Tunisi, Bochra è stata co-organizzatrice del festival Chouftouhonna nelle sue passate edizioni. Quanto Tashweesh è diverso dalle vostre esperienze passate e quanto invece ne è debitore?
Penso che tutta la nostra esperienza sia stata al servizio di Tashweesh nel capire cosa dovevamo fare e in che modo. Entrambe abbiamo idee su come muoverci nei rapporti con le varie sedi, con i finanziamenti, con le organizzazioni. Io stessa ho usato la mia esperienza nei festival per capire cosa mi piace, cosa avrei voluto trovare in Tashweesh. Il fatto che si faccia in tre città diverse, con pubblici diversi ed esigenze diverse, lo rende un festival molto particolare, ideato con programmi comuni ma anche con variazioni locali.

Appunto, Tashweesh si sposterà da Tunisi a Bruxelles e poi ancora a Vienna. Come si riflette sulla scena artistica tunisina la diaspora delle proprie artiste e, da artista libanese che si divide tra New York, Beirut dove sei cofondatrice del Dictaphone Group, e Londra in cui fai parte del collettivo artistico Forest Fringe, come vedi tu questi scambi culturali?
Bruxelles è una città diasporica, molto più di Vienna. Lì la scena artistica ha una presenza forte e multiculturale, il nostro lavoro è stato non soltanto portare Tashweesh in tre città, ma attraverso il festival connettere la cultura d’origine delle artiste che ne fanno parte a questi spazi, considerando anche la migrazione come necessità o volontà, la diaspora, l’inevitabile scambio tra culture.

Molti degli eventi di Tashweesh riguardano il corpo: quello delle donne, delle persone queer e transgender, e soprattutto il corpo politico, inteso come il modo in cui occupiamo lo spazio pubblico nella costruzione della nostra identità. Cosa significa rendere questo spazio sicuro e al riparo dalle discriminazioni per tutti i corpi, e in particolare qui a Tunisi con Tashweesh?
Penso che una parte importante del nostro lavoro con Tashweesh, e qui a Tunisi con L’Art Rue, sia proprio rendere sicuro per tutti i corpi questo spazio, come parte attiva della nostra pratica femminista che non può prescindere dall’attenzione verso la rappresentazione delle minoranze, dei corpi queer.

Cosa significa dare visibilità alle tematiche queer e di uguaglianza in Tunisia, e come siete riuscite a farne uno spazio sicuro in Tashweesh?
La visibilità queer è un argomento interessante perché differente a seconda del luogo. In Tunisia è ancora un crimine essere apertamente queer. Le persone LGBTQIA+ sono ancora perseguibili penalmente e l’omosessualità è illegale, con una pena che va fino a 3 anni di reclusione. Si tratta di qualcosa che può essere usato contro di te, per mettere a tacere le tue pratiche e il tuo attivismo, perciò bisogna essere chiari che la nostra priorità è la sicurezza delle persone, in modo che trovino in Tashweesh uno spazio sicuro. Cerchiamo anche di non trasformare il festival in modo consumistico e commerciale, e credo faccia anche questo parte dell’internazionalità della pratica femminista.«Like wtf is the point of art» si chiede la protagonista del corto Tender Point Ruin di Sophia Al-Maria, sulle note di Al Atlal (Le rovine) cantata da Umm Kulthum: se la vita è come cercare tra i detriti, l’arte è trovare un utilizzo a questi detriti, a tutte le cose lasciate indietro che ci sembrano inutili.