Alla letteratura israeliana, e ai suoi protagonisti, viene spesso richiesto, e forse non a caso, uno sforzo supplementare quanto alla capacità di interpretazione della realtà, di lettura di ciò che ci circonda. Eppure, e non certo in ossequio ad un qualche canone, è difficile pensare ad un testo più «politico», ovviamente nei termini che ciò assume nelle pagine di storie e personaggi parto della fantasia e dei sogni di qualcuno, del romanzo La meteorologa della scrittrice e sceneggiatrice israeliana Tamar Weiss Gabbay (traduzione di Silvia Pin, Giuntina, pp. 98, euro 14).

Tre personaggi, la meteorologa del titolo, suo padre insegnante e la loro nipote si ritrovano in una località alle porte del deserto minacciata dalle inondazioni e che ancora ospita qualche esemplare isolato di gazzella. In questo microcosmo, a sua volta suddiviso nel libro in tre storie con al centro rispettivamente ciascuno dei personaggi, Weiss Gabbay fa precipitare inquietudini che solo in apparenza riguardano il rapporto con la natura, ma che interrogano il senso stesso dell’esistenza e il nostro percepirci come parte di uno spazio interconnesso, multiplo, plurale. La scrittrice israeliana, co-fondatrice e redattrice della prestigiosa rivista letteraria HaMussach e molto attiva in diversi progetti cui partecipano anche autori palestinesi, con estrema grazia e altrettanta determinazione indica la capacità irriducibile della narrativa a mettere in discussione il mondo per come lo conosciamo, aiutandoci ad immaginarlo insieme agli atri.

Tra gli ospiti del festival Libri Come, che si apre venerdì 22 a Roma, Tamar Weiss Gabbay presenterà il suo libro domenica alle 16,30 presso lo Studio 3 con Roberta Fulci e Marco Filoni.

A prima vista, si è portati a credere che il suo romanzo racconti soprattutto del rapporto tra gli esseri umani e la natura, o magari con gli animali. In realtà, al termine della lettura, si ha la sensazione che ciascun personaggio stia prima di tutto cercando se stesso e di definire lo spazio che davvero occupa non solo nel mondo naturale, ma forse nella propria vita; è così?
Assolutamente. E questo perché la natura non è solo rocce, inondazioni e gazzelle: è tutto, forse è l’unica cosa. E include noi stessi, anche se cerchiamo di negarlo. Quindi cercare di trovare il tuo posto nella natura, nel tuo habitat, tra tutti gli animali e gli elementi (compresi gli altri esseri umani) che ti circondano, significa cercare di comprendere il tuo posto nel mondo – e questa è davvero una posizione interiore. E tutto ciò ti influenza anche quando ti siedi davanti al computer al terzo piano di un edificio in una città frenetica, lontano da ciò che è considerato «natura», come sto facendo ora per questa intervista.
I protagonisti della storia non hanno nome: acquisiscono un ruolo solo attraverso le relazioni che intessono con gli altri?
Volevo soprattutto liberarli da molti altri ruoli; dare loro un nome li avrebbe costretti a identificarsi con una nazione, una cultura, una Storia e forse anche una religione specifiche. Ho provato a staccare tutti questi strati dalla vicenda per rappresentare così i personaggi: esseri umani e altri animali che condividono uno spazio e acquisiscono ruoli gli uni con gli altri.

Anche i luoghi del romanzo non hanno nome, ma tra i lettori c’è chi ha parlato di una località del Negev che potrebbe averla ispirata. Ci sono delle suggestioni particolari alla base della scelta del tema, dei personaggi e del contesto della storia?
In modo consapevole o inconsciamente sono stata ispirata da alcuni eventi cui ho assistito o di cui ho sentito parlare. Uno è il disastro del fiume Tzafit, in cui nel 2018 dieci giovani rimasero uccisi a causa di un’alluvione improvvisa, quando i loro insegnanti li hanno spinti a correre dei rischi. Poi c’è la storia della gazzella Yohana che mi è entrata nel cuore: una volta liberata non ha mai trovato il suo posto né nel branco, né tra gli umani. Per tutta la vita è stata combattuta tra le sue identità. Come penso accada un po’ a tutti noi.

Nella parte del libro dedicata alla figura della nipote, emerge un confronto con «Il vecchio e il mare» di Hemingway che sembra strutturare una forma «tradizionale» e maschile di rapporto con la natura: è con questa dimensione che si misura la ragazza e, forse, lei stessa?
Naturalmente, da giovane autrice cresciuta nel canone della letteratura maschile, volevo mettere la mia storia davanti a quella famosa (e bellissima) di Hemingway e dire: ecco come la racconto io. Ognuno dei tre personaggi porta con sé qualcosa che mi appartiene, mi rivedo in ognuno di loro e non li considero «buoni» o «cattivi». Ma ho messo una giovane ragazza in contrasto con il vecchio che caccia un pesce (e in contrasto con Hemingway, che era lui stesso un cacciatore) perché credo che le giovani donne possano avere nuove storie da portare in questo mondo.

La meteorologa cerca di integrarsi con lo spazio naturale, di parlarne la lingua, di diventarne parte, come i sassolini che tiene in bocca come se fossero caramelle: quale il peso di questo elemento nel romanzo?
In realtà, lei pensa che ne siamo già parte. Che ci piaccia o no, facciamo parte di una rete e siamo molto dipendenti e fragili, ed è difficile tracciare i confini tra ciò che è «noi» e ciò che non è «noi». Questo vale sia per i germi nel nostro corpo che per quelli dei nostri vicini. È un’illusione quella di essere separati da ciò che ci circonda, gestirlo e usarlo solo per i nostri bisogni. Anche se ci riusciamo per un breve periodo, a lungo termine il nostro benessere dipende dal benessere degli altri. Di tutte le creature.

La scrittrice israeliana Tamar Weiss Gabbay Foto di Hila Shiloni

Tre generazioni di protagonisti, tre vicende che si parlano e si intrecciano pur nelle differenze. Il suo romanzo sembra evocare la storia di Israele: i fondatori, chi è cresciuto dopo la lotta per l’indipendenza, la sua generazione. Tre percezioni diverse di sé come del mondo circostante legate da una storia comune?
In effetti credo si possa leggere anche così. Del resto, penso che nel mio Paese l’approccio verso la natura sia influenzato anche dalla Storia e dalle sue diverse fasi. Quando la tua connessione con la terra, con il tuo habitat fisico, viene messo in discussione ancora e ancora, ti sforzi per trovare delle risposte a queste domande e per dimostrare la tua connessione con quel luogo. A volte non puoi permetterti di avere dubbi. Non puoi sempre chiederti: qual è la forma del mio rapporto con il luogo stesso? È un rapporto di proprietà? Essere legati a un luogo significa modificarlo per le nostre esigenze? Coltivare frutti nel deserto? Viaggiare ovunque e in qualsiasi momento, nonostante le difficoltà e i problemi? Possiamo viverci senza possederlo? Possiamo essere solo un’altra parte del nostro habitat, una tra le altre? Possiamo condividerlo? Sarà ancora il nostro habitat se non lo controlleremo?

Lei è impegnata in molti progetti con autrici e autori palestinesi: qual è la situazione ora, queste collaborazioni continuano?
È un momento terribile. Ci sono come sempre poche, piccole collaborazioni generali, come le proteste delle «Donne contro la violenza» o le cene dell’Iftar (la rottura serale del digiuno nei giorni di Ramadan) tra arabi e ebrei. Ma quando si tratta di autori, ne sento molti dire che trovano che le loro parole hanno perso di significato e sono ancora alla ricerca di una nuova lingua. Questo mi ricorda la vecchia storia di Etgar Keret, dove dice che quando qualcuno ha un attacco d’asma, ogni parola che riesce a dire conta più del solito – in momenti come questi c’è un’enorme differenza se dici «ti amo» invece di «Ambulanza!». Quindi mi auguro che qui sempre più persone riescano a dire e scrivere qualcosa di più di «Ambu-lanza!». Ma finché tutti seppelliremo i nostri morti, ci preoccuperemo per le giovani donne rapite e per i bambini che muoiono di fame, e dovremo prenderci cura di migliaia di sfollati sia a Gaza che in Israele, capisco che sia difficile aspettarselo.

Dopo il 7 ottobre, molti in Israele hanno ritenuto che l’opinione pubblica internazionale non abbia capito fino in fondo la gravità e la tragedia dell’attacco di quel giorno, mentre, allo stesso tempo, molti fuori da Israele ritengono insufficienti le voci di condanna verso la tragedia che si compie da allora ogni giorno a Gaza, e dove a pagare per l’azione terrorista di Hamas è la popolazione civile. Cosa ne pensa?
Che oggi ci sia abbastanza dolore per tutti. Possiamo riconoscere la nostra orribile sofferenza e tuttavia desiderare che la sofferenza degli altri finisca. Ecco come mi sento: il mio cuore e la mia mente vanno a tutti coloro che soffrono. Piango insieme ai miei parenti e ai miei amici per le loro terribili perdite, e non riesco a smettere di pensare a ciò che stanno vivendo le famiglie palestinesi. Non puoi rimediare al male con altro male, e questo vale per entrambe le parti. Sono molto preoccupata per il moltiplicarsi delle opinioni che sembrano non riuscire a sostenere un approccio complessivo che consideri allo stesso modo tutti coloro che sono coinvolti.

La meteorologa è rimproverata dai concittadini che vorrebbero annunciasse solo bel tempo e ciò che desiderano ascoltare. Anche in Israele servono leader che indichino una nuova via di pace con i palestinesi e, con essa, un futuro di pace per il Paese, invece di assecondare, e speculare, su rabbia e paura?
Penso di sì, forse abbiamo proprio bisogno di un leader simile alla mia donna del meteo, qualcuno che sia in grado di vedere tutte le creature che condividono uno stesso spazio vitale e voglia davvero agire per il bene di tutte loro. Ma abbiamo anche bisogno che abbia più fiducia nel futuro della donna del meteo, che non vede una via per risolvere il problema che sta affrontando. A pensarci meglio, però, questa figura dovrebbe assomigliare di più alla ragazza che cerca di salvare una gazzella anche se le viene detto che questa azione è inutile.