Il clima di armonia e le aspirazioni globali dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) sono stati guastati dalla contemporanea esplosione di un cruento conflitto fra due dei membri centrasiatici. Venerdì, mentre i capi di stato dibattevano un nuovo ordine internazionale a Samarcanda, tagiki e kirghizi si facevano la guerra lungo il loro fragile confine nella valle di Fergana. Il conflitto ha carattere endemico (quest’anno si era già manifestato a gennaio), ma questa volta la violenza ha assunto proporzioni davvero minacciose, con l’uso di armi pesanti, attacchi aerei, mortai e sistemi di lancio multiplo. Il Tagikistan ha sottoposto a bombardamento una linea di oltre 100 km, che include il capoluogo regionale kirghizo di Batkent. Truppe tagike hanno cercato di occupare territori dei vicini che hanno risposto colpendo le postazioni di confine degli avversati. A seguito dei combattimenti, il Kirghizistan ha dichiarato aver evacuato 120.000 persone dalle loro case. Alla fine è stato concordato un cessate il fuoco, ma la situazione rimane nel limbo. Bilancio, la parte kirghiza ha denunciato 24 cittadini uccisi e oltre 120 ricoverati per ferite da arma da fuoco.

Il tutto mentre i presidenti kirghizo Sadyr Zhaparov e tagiko Emomali Rakhmon si trovavano allo stesso tavolo a disquisire di pace e sicurezza internazionale, senza fare cenno alla situazione ai loro confini. Ulteriore paradosso, entrambi i paesi ospitano basi militari russe nel quadro della loro adesione all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Otsc), a guida russa, il cui segretario generale ha partecipato ai negoziati fra i contendenti.

La zona dello scontro è sita nella parte sud-occidentale della valle di Fergana, il punto più fragile dell’Asia centrale. Dopo il crollo dell’Urss, uno spazio delle dimensioni della Pianura padana si è ritrovato diviso fra tre Stati, con confini che seguono tracciati astrusi e lasciano enclave nei territori dei vicini, in questo caso le due enclave tagike in territorio kirghizo di Vorukh e Kalacha. Dushambe e Bishkek non sono riuscite ad accordarsi sul tracciato di circa metà dei 987 chilometri del loro confine e questo ha anche destrutturato i collegamenti e l’utilizzo delle risorse idriche. La situazione lungo questa linea di tensione è già esplosa sanguinosamente nella primavera del 2021 quando una controversia in apparenza «marginale» sulla distribuzione dell’acqua è degenerata in conflitto con 55 vittime (36 di parte kirghiza e 19 di quella tagika), oltre duecento feriti e decine di case distrutte. Il conflitto è tornato ad accendersi quest’anno a gennaio con nuovi scambi di fuoco, feriti ed accuse reciproche fra le due parti. L’assenza di accordo deriva anche dalla debolezza della sovranità dei due vicini, sottoposta a sfide demografiche, ecologiche ed idriche. La violenza riflette le divergenze fra i regimi e gli interessi mafiosi dei clan locali, i quali traggono vantaggio per i loro traffici dall’esistenza di “zone grigie”, quali quelle attorno alle enclavi.

La valle di Fergana è anche un’area di espansione per l’Islam radicale, i cui esponenti sfruttano le divisioni politiche ed il crollo delle condizioni di vita in queste regioni periferiche, dovuto tanto alla guerra civile in Tagikistan (1992-97) che alle ricette neoliberali adottate dal Kirghizistan. Il moltiplicarsi dei conflitti di quest’anno ha un effetto in termini di radicalizzazione nell’insieme della regione, visibile negli spazi virtuali delle reti social, che si alimenta anche dalla situazione nel vicino Afghanistan.