Se Legambiente, da diversi anni, pone la cancellazione dei sussidi al settore dell’oil and gas al centro dell’agenda politica nazionale ci sarà un perché, o anche più di uno.

Il primo è che, secondo le stime elaborate in base ai dati disponibili, nel nostro paese sono arrivati al settore delle fonti fossili, in un anno, circa 18,8 i miliardi di euro, tra sussidi diretti e indiretti al consumo o alla produzione di idrocarburi. Ed è davvero ipocrita e inaccettabile continuare a trasferire ogni anno miliardi di euro a sostegno di petrolio, gas e carbone quando il mondo intero, Italia compresa, soffrono già gli impatti di alluvioni, siccità e ondate di calore, sapendo che le fonti rinnovabili sono ormai pienamente competitive per molteplici usi.

Il secondo punto è che questi soldi, dunque, potrebbero – e a nostro avviso dovrebbero – essere impiegati altrove: in innovazione e ricerca, nella green economy e per la riduzione delle diseguaglianze. Un modo concreto e fattibile di sostenere l’uscita del nostro paese dalla difficile situazione economica e sociale in cui si trova.

Già dalla prossima legge di Bilancio, rimodulando i sussidi e rivedendo le esenzioni, si potrebbero incrementare i fondi necessari al funzionamento del Servizio Sanitario nazionale, per l’Università e la Scuola, per i pendolari attraverso il fondo trasporti, per la messa in sicurezza e l’adattamento dei territori ai cambiamenti climatici; una attenta programmazione consentirebbe di arrivare a 14 miliardi di euro all’anno nel 2025.

Ma già dal 2020 si potrebbero determinare investimenti importanti in settori strategici: per esempio, riducendo del 10% all’anno i sussidi agli autotrasportatori e vincolando le risorse all’acquisto di mezzi più efficienti e premiando le imprese che scelgono l’integrazione modale con ferro e navi; eliminando nelle isole minori i privilegi di cui godono vecchie centrali diesel e spostando la produzione verso solare, eolico, biometano e idroelettrico; cancellando le esenzioni dal pagamento delle accise di cui beneficiano le auto diesel e i voli di linea.

Accorciare i tempi dell’uscita dalle fonti fossili e contenere l’innalzamento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi centigradi è una questione di volontà politica.

E questo è il terzo punto. Perché esistono tutte le condizioni per farlo. Lo sa bene il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, il cui partito ha, a suo tempo, fortemente sostenuto la necessità della cancellazione dei sussidi alle fonti fossili.

Un progetto ancora tutto da portare avanti, poiché nel piano Energia e clima recentemente presentato il tema delle risorse pubbliche spese a sostegno dell’oil and gas viene trattato solo marginalmente e il governo si è limitato nel decreto Semplificazioni, ad aumentare i canoni di concessione per prospezione, ricerca ed estrazione di gas e petrolio.

Nel lungo elenco di sussidi alle fossili – peraltro pubblici dal 2016 nel Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e favorevoli curato dal ministero dell’Ambiente, di cui manca però l’aggiornamento – quelli alle trivellazioni sono tra i più rilevanti.

Solo adeguando le royalties ci troveremmo con un gettito da 414 milioni di euro, invece dei 117,5 milioni attuali. Senza contare le esenzioni dal pagamento di aliquote allo Stato in vigore per le estrazioni entro certe soglie e le deduzioni fiscali di cui le aziende beneficiano rispetto alle royalties da versare alle Regioni.

È chiaro quanto sia obsoleto un sistema costruito in anni in cui l’interesse dello Stato combaciava con quello dell’Eni e, diversamente da oggi, non era da fronteggiare la drammatica emergenza dei cambiamenti climatici.

* vice presidente Legambiente