Hillary Clinton e Donald Trump, vincitori del Supertuesday, hanno fatto un lungo passo verso le nomination dei rispettivi partiti nelle primarie USA e verso elezioni sempre più imprevedibili.
L’esito di ieri ha rispecchiato in gran parte i pronostici della vigilia. Hillary Clinton ha vinto 8 stati concedendo a Bernie Sanders Oklahoma, Minnesota, Colorado e Vermont (nel suo stato Sanders ha vinto con percentuale bulgara dell’86%). Il candidato “socialista” è anche andato vicino alla sorpresa in Massachusetts, dove Hillary si è imposta di misura (50% a 49%).
[do action=”citazione”]Se la vittoria della Clinton è stata decisiva, quella di Trump è stata nuovamente soverchiante.[/do]
Il miliardario ha conquistato 8 stati su undici allungando il suo vantaggio sui concorrenti e le mani sulla nomination di un partito ancora a forte disagio con la sua irresistibile ascesa.
Trump non ha esitato ad assumere il ruolo di “nominato” in pectore trasformando il suo discorso di vittoria in una conferenza stampa scenografata per il massimo effetto presidenziale. Su un palco decorato con un tripudio di stelle e strisce, Trump è stato introdotto da Chris Christie, l’ex concorrente trasformato in sostenitore (con probabili mire vicepresidenziali).
Nel salone della sua tenuta “imperiale”, la villa deco Mar-A-Lago di Palm Beach, trasformata in resort di lusso, Trump si è rivolto alla folla di giornalisti con toni inusitatamente pacati e (relativamente) “ragionevoli” – possibile anteprima di una strategia della moderazione in vista della campagna nazionale contro Hillary Clinton.
Trump ha deriso la probabile avversaria democratica come una figura politica di lungo corso “al potere da sempre” e quindi congenitamente incapace di attuare riforme, una tattica non senza buone possibilità di risultare efficace a novembre nell’attuale clima populista.
Prima di allora però Trump dovrà riuscire ad unificare un partito profondamente diviso e riconciliarsi con i quadri repubblicani, molti dei quali trovano ancora improponibile la prospettiva di una sua candidatura. I vertici Gop del congresso, Paul Ryan e Mitch McConnell hanno entrambi espresso pubblicamente la scorsa settimana il proprio dissapore per la candidatura del populista “ribelle” e sono molti gli aderenti al partito dei “never Trump” che proclamano attualmente di preferire l’astensione al voto per lui.
All’indomani della ennesima batosta, intanto, i concorrenti repubblicani non danno segno per ora di pensare al ritiro. Ieri Ted Cruz ha vinto nel “suo” Texas e nel vicino Oklahoma. Marco Rubio ha ottenuto il suo primo risultato positivo in Minnesota. Messi assieme con John Kasich, i tre contano a oggi a malapena sullo stesso numero di delegati di Trump, ma in mancanza di un avversario “unificato” emerge l’ipotesi della resistenza a oltranza in cui Cruz, Rubio e Kasich, pur senza speranze di prevalere, rimarrebbero in lizza sino alla fine con l’unico scopo di sottrarre voti a Trump e impedire (forse) che possa ottenere i 1.237 delegati necessari a una candidatura ufficiale. La pratica sarebbe poi risolta a luglio con un accordo a tavolino in fase di convention.
Una strategia a dir poco spericolata che rischierebbe oltretutto di esacerbare le spaccature interne.
Impostore o meno. la dinamica di queste elezioni eretiche intanto rimane sostanzialmente invariata: Hillary, spostata a sinistra almeno nominalmente dalla coriacea sfida di Bernie Sanders, osserva compiaciuta l’anarchia in campo avversario.
Ma per quanto affascinante, l’autodistruzione del partito repubblicano sconquassato dal trumpismo non garantisce necessariamente una vittoria democratica. Tantopiù di una candidata “di sistema” nell’anno della rivolta populista.