Non è stato un martedì qualsiasi ma un martedì che ricorre ogni quattro anni, il SuperTuesday, con l’elettorato chiamato a votare per le primarie o ai caucus (una specie di assemblea dove si decide il candidato da sostenere) indetti da Democratici e Repubblicani, per nominare il candidato alle presidenziali dei rispettivi partiti.

In questo SuperTuesday si vota contemporaneamente in 13 stati e, si suppone, ne verrà fuori il candidato che, a luglio, durante la convention nazionale, sarà nominato candidato ufficiale, o almeno ci si schiarirà le idee a riguardo; ai democratici vanno 865 dei 4.000 delegati coinvolti in queste presidenziali, mentre per i repubblicani in un giorno solo vengono assegnati 640 dei 2.472 delegati. Solo in 10 dei 13 stati coinvolti si vota sia per i democratici che per i repubblicani ed in quattro si tengono non le primarie ma i caucus. Uno degli stati dove votano solo i democratici, Samoa Americana, è un arcipelago vicino all’Australia che però non parteciperà al voto di novembre ma che per le primarie può assegnare 6 delegati.

In tutti gli stati coinvolti nelle primarie democratiche vale il sistema proporzionale, quindi ogni candidato si vede assegnare tanti delegati quanti ne ha effettivamente conquistati senza il jackpot del sistema maggioritario che permette di rivoluzionare i conteggi. In una tornata elettorale come questa dove, per farla breve, negli Stati del nord è favorito o ha buone possibilità Sanders mentre in quelli del sud la favorita è Clinton, si può così facilmente ritornare ad un 50 e 50 tra i due candidati in corsa oppure Hillary può emergere come la candidata unica.

Diverso il discorso in area repubblicana dove 5 Stati, Alabama, Arkansas, Georgia, Texas (lo stato di Cruz) e Tennessee, decidono la maggior parte dei delegati assegnati; questi stati sono tutti roccaforti repubblicane e per come stanno le cose ora, con Trump spadroneggiante in vetta e Rubio e Cruz testa a testa per un secondo posto, i tre si giocano buona parte degli equilibri durante questa votazione, ma la differenza con i democratici sta nel fatto che per i repubblicani un’altra data importante è il 15 marzo quando saranno in ballo altri 286 delegati perché solo per i Gop si voterà in Florida (lo stato di Rubio), Ilinois, Missouri, North Carolina e Ohio (lo stato di Kasich) e dove in tutti tranne che in North Carolina vale il sistema maggioritario.

Il SuperTuesday come lo conosciamo esiste dal 1988, quando i democratici di una dozzina di stati del Sud, arrabbiati per essere fuori dalla Casa Bianca da 20 anni, salvo per i quattro di Carter, si unirono per votare tutti nello stesso giorno e nominare qualcuno di moderato e secondo loro eleggibile. Il tentativo fallì ma la prassi rimase.

L’idea era quella di dare uno scossone alle campagne elettorali dei candidati facendole uscire dai localismi di un voto capillare pensato stato per stato. Il principio (e la prassi) del SuperTuesday ha ricevuto diverse critiche in quanto sembra troppo simile a una elezione generale, ed in effetti, dopo il voto di questo giorno può sembrare che le nomine siano già decise e ciò può portare gli elettori degli stati successivi a votare di conseguenza.

Questo è sempre stato l’effetto del SuperTuesday, che ha tradizionalmente giocato il ruolo di spartiacque e carro trainante, ma nelle ultime tornate elettorali le cose son cambiate.

Nel 2008, Obama, pur avendo vinto in 13 dei 24 stati interessati (il più numeroso SuperTuesday della storia americana, chiamato GigaTuesday) aveva raccolto di fatto meno voti e solo pochi delegati più della Clinton, e tra i repubblicani John MacCain non ne era uscito come candidato inconfutabile. Nel 2012, invece, se non c’erano dubbi su Obama, i buoni risultati di Santorum al SuperTuesday lo tennero in gara per più di un altro mese, prima di designare Romney come candidato repubblicano.