La dilagante disuguaglianza socio-economica, che impoverisce molti per arricchire pochi, ha origini lontane e un responsabile principale: il credo neoliberista impostosi negli Stati Uniti esattamente un secolo fa e da lì disseminato dovunque. Generalmente si pensa che il neoliberismo si sia imposto in America – e poi in mezzo mondo – con la vittoria di Ronald Reagan nel 1980.

Ben nota è la sua frase ad effetto (“Il governo non è la soluzione, il governo è il problema”), ma pochi sanno che quella era la riedizione di uno slogan ancor più sfrontato (“Meno governo negli affari e più affari nel governo”) con cui il repubblicano Harding aveva vinto le elezioni del 1920. Il 4 marzo 1921, un secolo fa esatto, Warren Harding veniva insediato presidente: una data da rammentare.

Si chiudeva così l’era del visionario democratico Wilson; svaniva il suo sogno di adesione alla Società delle Nazioni da lui stesso ideata; iniziavano i Roaring Twenties, un decennio di isolazionismo autarchico e di speculazione selvaggia sotto tre Amministrazioni repubblicane.

PER PRIMA COSA Warren Harding nominò al Tesoro il miliardario Andrew Mellon, che rimarrà in carica anche con i due successivi presidenti (Calvin Coolidge e Herbert Hoover) fino al 1932. Con la scusa di imprimere uno stimolo all’economia, Mellon iniziò a sforbiciare le imposte sugli alti redditi fino a farle scendere ad aliquote del 25%; disarmò le leggi antitrust varate a suo tempo contro l’abuso di posizioni dominanti; privatizzò tutto quanto si poteva (a cominciare dalle ferrovie, pur essendo ben gestite in mano pubblica).

La pacchia in stile “Grande Gatsby” portò ricchezza a pochi e la nazione alla catastrofe del ’29. Mellon, per sfuggire a un tentativo di impeachment, si fece nominare ambasciatore a Londra; mentre il presidente Hoover affrontò un democratico affetto da poliomielite, e perse di brutto: Roosevelt vinse le elezioni del 1932 con sette milioni di voti in più.

I programmi del New Deal prima e della Great Society dopo risanarono l’economia e ristabilirono un po’ di giustizia sociale: le aliquote fiscali per gli alti redditi salirono fino all’80% e così rimasero, con leggeri ritocchi, anche nel dopoguerra. Finché i Repubblicani dissero basta al “socialismo strisciante”. Socialismo? La verità è che una paranoia politica – il maccartismo – stava corrodendo l’anima del Grand Old Party di Lincoln.

LA DESTRA DEL PARTITO arrivò a sospettare che perfino Eisenhower, Kennedy e Johnson fossero strumenti di una “cospirazione comunista”. Tuttavia, la paranoia anti-comunista non impedì a un nuovo presidente, Nixon, di aprirsi alla Cina di Mao (né di corrompersi fino a doversi dimettere). Ne seguì una parentesi moralizzatrice sotto Jimmy Carter, ma durò solo quattro anni. Carter fu sconfitto clamorosamente nel 1980 da un simpatico attore di serie B, Ronald Reagan.

L’inesperto neo-presidente venne subito preso in carico dai Chicago’s boys, gli esperti della Scuola di Chicago idolatri della deregulation. Archiviarono Keynes in nome di Arthur Laffer, il teorico della “curva a campana” (l’economista l’aveva schizzata su un tovagliolo davanti a Cheney e Rumsfeld). Secondo Laffer, tassare oltre una certa soglia gli alti redditi disincentiva gli investimenti. I fautori della Reaganomics applicarono la teoria a modo loro: abbassarono le aliquote drasticamente, sicuri che il rilancio degli investimenti avrebbe accresciuto il gettito fiscale e i benefici sarebbero ricaduti a pioggia (trickle down) su tutti.

Non era che una riedizione della fallimentare teoria degli Anni Venti: la sospirata pioggia non è mai scesa sugli assetati in attesa. Non solo, i tagli fiscali di Reagan raddoppiarono il deficit pubblico. Ne tenne conto Clinton: resistendo alle sirene del tax cut, dopo otto anni consegnò un attivo di 200 miliardi al successore, George W. Bush. Il quale dilapidò tutto in due mosse: ridusse di nuovo il carico tributario alle fasce più agiate e si lanciò in costose avventure belliche. La grave crisi del 2008, che il governo non aveva voluto prevedere, lasciò in eredità a Obama un cocktail esplosivo – deficit e recessione – che dilaniò il suo primo mandato. In conclusione, dei dodici presidenti del dopoguerra solo quattro hanno chiuso il mandato con un debito pubblico maggiore di quello ereditato.

Ecco i nomi: Reagan, i due Bush e ora Trump. Nel frattempo la ricetta neoliberista era stata venduta – o più spesso imposta – a dozzine di Paesi già di per sé fragili; a loro veniva richiesto di attuare “coraggiose” riforme strutturali in cambio di aiuti della Banca Mondiale. La ricetta si chiamava Washington Consensus, il nome la dice lunga sulla responsabilità Usa. Articolata in dieci prescrizioni, assomigliava un po’ ai beveroni che i ciarlatani appioppano oggi agli ingenui no vax per curarsi dal Covid-19: non sono intrugli nocivi, ma non fanno guarire.

Partecipando da diplomatico a diversi “esami Paese” negli anni Ottanta e Novanta, mi rendevo conto che alcune riforme erano giustificate, ma che l’obiettivo finale del Fondo Monetario era altro: issare dovunque la bandiera della deregulation. E in quell’epoca d’oro per la Superpotenza americana, russi e cinesi non osavano più opporsi all’ideologia dominante.

I RISULTATI SONO sotto gli occhi di tutti. Le disuguaglianze socio-economiche all’interno dei singoli Paesi, misurate dal coefficiente Gini, sono cresciute a dismisura. Negli Usa, gli ultimi trent’anni hanno visto il 10% della fascia più agiata triplicare la propria fortuna, mentre il 50% della gente meno agiata (quindi anche la classe media) è rimasta al palo. Neppure ai tempi dei “padroni delle ferriere” dell’800 accadeva che i patrimoni di un Bezos o uno Zuckerberg superassero il Pil di molti Stati. Dove sono finite quelle ricchezze, che oggi sarebbero preziose ad alleviare le sofferenze del mondo colpito anche da pandemia? Per scoprirlo dovremmo inviare le cannoniere alle Cayman e negli altri “paradisi” offshore.i