Finalmente l’Italia ha un partner sulla crisi libica: la Tunisia. I due Paesi si sono riconosciuti nelle comuni fragilità – minaccia di ingenti flussi migratori, rischio terrorismo, guerra alle porte – come nelle debolezze non dette, come lo sbilanciamento a favore del governo Serraj, la necessità di prenderne le distanze, il rischio di isolamento internazionale. Nel vertice intergovernativo che si è svolto ieri a Tunisi il primo ministro ospitante Youssef Chahed e il suo omologo italiano Giuseppe Conte hanno convenuto sulla volontà di impedire l’ingerenza di altri Paesi nel conflitto e sul rispetto delle direttive Onu in mano all’inviato per la Libia, il tunisino Ghassam Salamé.

Tunisia e Italia – ha sottolineato Chahed – sono stati i Paesi più danneggiati dalla guerra del 2011 in Libia e non vogliono ripetere l’esperienza. Conte da parte sua ha cercato di chiarire la nuova posizione italiana “né con Haftar né con Serraj”. «Cosa faremmo in caso di vittoria di Haftar? L’Italia parla con tutti – ha risposto – ho un buon rapporto personale con lui, ma non significa che giudichiamo positivamente l’opzione militare». Con Tunisi, ha aggiunto, «abbiamo condiviso un’agenda sul Mediterraneo», prima di elencare una serie di accordi bilaterali in ambito economico, finanziario e scolastico. Matteo Salvini in mattinata ha trovato il modo di differenziarsi: in un colloquio telefonico con Ahmed Maitig, vice premier di Tripoli e uomo forte di Misurata, ha invece confermato come unico governo legittimo quello di Serraj, denunciando l’aggressione e il bombardamento di civili.

Serraj può contare sull’appoggio dichiarato della Turchia – il suo ministro dell’Interno Fathi Bashagha, dopo le dichiarazioni di Erdogan dei giorni scorsi, è volato in Turchia a chiedere una maggiore cooperazione militare – e del Qatar, il quale torna a bussare per un pronunciamento del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Il ministro degli Esteri di Serraj, Mohamed Taher Siala, doveva recarsi ieri a Mosca – sarebbe stato un viaggio storico – ma all’ultimo ha rinunciato «perché la situazione è complicata». Il colloquio a Mosca, dove finora è stato ricevuto solo Haftar, potrebbe svolgersi, ha dichiarato il numero 2 della diplomazia del Cremlino Michail Bogdanov, dopo il 5 maggio, quando si spera che i nodi libici si siano sbrogliati.

Eppure non si annunciano tempi più facili dal punto di vista diplomatico per il governo di Tripoli, se è vero quanto scrive il New York Times, che Trump fidandosi dell’alleato egiziano al Sisi starebbe per dichiarare «terrorista» la Fratellanza musulmana, sponsor di Erdogan e Serraj.

Per ora la guerra continua nella zona sud di Tripoli: Gharyan, Wadi Rabie, l’area attorno all’aeroporto di Mitiga. Le forze del generale Haftar subiscono pesanti perdite (il bilancio totale aggiornato dall’Oms conta 345 morti, di cui 22 civili incluso un bambino mentre gli sfollati sono diventati 42 mila) ma le sue fila sono continuamente rimpinguate da truppe fresche.