L’occasione era ghiotta, i relatori di livello per l’evento convocato dall’Istituto Affari Internazionali sulla Libia a Roma martedì scorso: ospite centrale il ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Il tema: come uscire da una crisi multiforme, con tracce che si sovrappongono, da quella della lotta contro il Daesh, a quella della frammentazione «orizzontale» del tessuto sociale e politico del paese, a quella della scissione «verticale» tra Tripolitania e Cirenaica, alla gestione dei flussi migratori, fino alla questione energetica. Un’occasione, purtroppo persa, per avere lumi dal diretto interessato sul ruolo che l’Italia vorrebbe svolgere in quello scacchiere prioritario, dal punto di vista geopolitico e geostrategico.

Il ministro ha spiegato che il futuro del governo Serraj si gioca di giorno in giorno, ma che solo da là si potrà costruire l’iniziativa della comunità internazionale, smentito poi da uno dei relatori intervenuti. Ha ammesso che l’Italia può svolgere un contributo importante nella stabilizzazione, senza specificare come o quando. Sottolineando quanto sia importante l’istituzione della guardia presidenziale per la rimozione selettiva dell’embargo sulle armi e come la proposta inglese di risoluzione al Consiglio di Sicurezza Onu per l’ampliamento del mandato della missione Euronavfor Med Sophia per il monitoraggio dell’embargo alle armi alle fazioni «cattive» in Libia sia ancora in fase di stallo. Dimenticando di specificare che oggi in Libia quello di cui proprio non c’è bisogno è di mandare altre armi, immemore del precedente dell’invio di armi italiane alle milizie anti-Gheddafi – parte dello stock di armi russe poi inviate ai peshmerga kurdi – poi cadute in mano delle milizie islamiche.

Ha negato l’esistenza di una crisi migratoria, visto che a sua detta ci sarebbe una diminuzione di flussi dallo scorso anno – ma che in effetti dall’Egitto aumentano le partenze – immemore dei 10mila morti in mare dal 2014, con un aumento delle vittime negli ultimi mesi. Di corridoi umanitari neanche a parlarne, meglio fermare i migranti economici, prima, in Niger o altrove. Ha attribuito gran valore alla ritirata di Daesh a Sirte ad opera delle milizie di Misurata e delle guardie dei giacimenti petroliferi e non da parte delle forze del generale Haftar, e rivendica il merito di aver scongiurato le pulsioni interventiste di altre capitali occidentali, riaffermando la centralità dell’obiettivo dell’inclusione di tutte le forze e le parti in conflitto. Per poi essere smentito da una delle relatrici intervenute in sua assenza, secondo la quale il ruolo delle milizie di Misurata rischia di essere il detonatore di un conflitto civile che potrebbe divampare ora, chiusa la partita Daesh. Oltre non è andato il ministro, a parte un fugace accenno all’Egitto, con il quale oggi l’Italia ha relazioni «delicate», ma la cui stabilità (magari sotto la canna del fucile di Al Sisi) è essenziale.

Sono due le «E» che aleggiavano nel suo discorso, quella forse di troppo che campeggia sullo schermo dietro al podio, sotto il cane a sei zampe, «main sponsor» dell’evento, e quella «E» che non c’è, quella dell’Egitto, il vero elefante nella stanza. Non si è parlato di Egitto, ma spesso è affiorato il «core business» della partita libica, quello energetico: non a caso uno degli interventi di apertura è stato del vicepresidente dell’Eni quasi a dettare la linea. Insomma, il ministro si è presentato con un ramoscello d’ulivo, secco e senza foglie, capo di una diplomazia che sulla Libia ha sulla carta deciso per l’opzione politica, mentre sotto il tavolo sostiene tutte le parti in conflitto, anche direttamente sul campo – come più volte denunciato.
Grandi assenti nel dibattito i libici, il popolo libico, non le fazioni. Quei civili che oggi – come denunciato amaramente da uno degli ospiti libici – soffrono una situazione di violazione dei diritti umani e di condizioni di vita forse peggiori che ai tempi di Gheddafi.

Eppure in molti dal pubblico avevano tentato di alzare la palla al ministro, tra chi chiedeva quale ruolo potesse esserci per un processo di diplomazia «dal basso», a chi chiedeva quale ruolo per i municipi e le autorità amministrative locali, a chi riaffermava la necessità di ricomporre il complesso mosaico delle tribù in conflitto tra loro. Chi, come un’altra relatrice diceva chiaramente che il tema centrale è la riconciliazione, ma che nessuno sembra volerne tenere conto. È la «diplomazia di pace» la grande assente, quella che forse avrebbe potuto immaginare di convocare una shura tra tutte le parti in causa, tra i rappresentanti delle realtà sociali del paese, per capire insieme come uscire dall’impasse, pensando in termini di «peacebuilding» dal basso e non affidarsi alle alleanze di comodo o alla realpolitik. Ma questa è un’altra storia.