C’è un mistero nella vita di William Tell ex detenuto in una prigione militare dove ha imparato a contare le carte. L’abilità conquistata gli permette una volta uscito di rinchiudersi in un altro universo parallelo, quello del gioco d’azzardo tra casinò e motel anonimi dove nulla scalfisce la sua solitudine, gioca quel tanto che basta per vincere bene evitando però di farsi notare. La sua vita scorre «a parte», nelle annotazione del proprio racconto di sé in voce fuoricampo finché non vi piomba un ragazzino millennial confuso e rabbioso, Cirk, vuole che lo aiuti a ammazzare un tipo, detto Gordo, uno che fa conferenze sui sistemi di controllo, per colpa sua il padre del ragazzo, anche lui militare si è ucciso dopo lo «scandalo» di Abu Ghraib, delle violenze dei soldati americani sui prigionieri rivelate al mondo dalle terribili immagini in rete. Però l’uomo in questione (Willem Dafoe), anche lui responsabile, ne è uscito indenne scaricando sugli altri da lui comandati la vergogna.

ÈABBASTANZA perché in William Tell – implacabile Oscar Isaac, che oggi vedremo in Dune e al Lido è anche nella serie «remake» bergmaniano di Scene da un matrimonio – l’indifferenza venga sgretolata dall’angoscia, dai fantasmi di un passato che è anche il suo, del quale sente il peso senza una possibile redenzione che all’improvviso invece quel ragazzetto inconsapevole e stupido gli offre. Ma non nell’omicidio bensè nell’aiuto, accetta di giocare, di rischiare per guadagnare abbastanza, salvarlo e conquistare così la sua pace. Forse. E su questa dualità di colpa e espiazione, scelta individuale e destino che segna il movimento di tutta la sua opera, Paul Schrader costruisce anche The Card Counter, in concorso a Venezia 78 e in sala da oggi, un film magnifico nel quale la capacità del regista – e sceneggiatore a lungo di Martin Scorsese (da Taxi Driver a Toro scatenato) che infatti è tra i produttori – di cogliere il sentimento dell’umano, i suoi conflitti, le sue distorsioni lungo i bordi di uno spazio intimo che è insieme collettivo.

COSA RACCONTA dunque The Card Counter – Il collezionista di carte? La storia di un uomo e quella dell’America nella sua ciclicità di violenza, e in quel binomio di debito e rimozione che ne è il fondamento. Indebitati sono il ragazzo (Tye Sheridan) con il college, sua madre col mutuo della casa, che passa la vita ai tavoli gareggiando e prima si è fatto dare i soldi per cominciare, la stupenda reclutatrice di talenti (Tiffany Haddish) che gli fa riscoprire il sentimento. Mentre nessuno sa, nessuno ricorda le guerre, i reduci, i morti, nessuno si assume le responsabilità – se non per essere crocifisso un po’ come l’immagine del presidente Biden in lacrime dopo l’attentato a Kabul. E quel passato che per il ragazzo senza coscienza è solo vendetta ha invece un’origine lunga, l’uomo che ha insegnato a Tell e agli altri a interrogare i prigionieri uccidendo, torturando, godendo con l’adrenalina della paura aveva iniziato in Nicaragua, la guerra sporchissima con i Contras contro i sandinisti fatta dagli Usa in clandestinità come tante altre nell’America latina prima di passare da qualche altra parte del mondo, e poi a mancare il terreno della conquista mondiale in una miseria interna anch’essa rimossa.

TELL COPRE I MOBILI, gli spigoli, gli specchi, non sopporta la musica metal, tutto lo riporta in quella prigione costruita in nome di una guerra fatta per esportare la democrazia, al trauma insostenibile di un sé feroce e assassino. Ma non basta. Il passato è lì come per quel giovane che però non lo conosce, non ne sa che una parte, quanto la costruzione della vittima – suo padre che ha pagato, è stato in galera, era traumatizzato – gli racconta. È una questione che riguarda l’assunzione delle responsabilità anch’essa personale e storica, e che a partire dalla condizione implosa del protagonista si allarga al mondo, si fa richiesta e insieme attraversamento di un’esperienza. Tell non riesce a sfuggire al destino forse per scelta: il suo mondo sospeso sul vuoto di un passato messo da parte e di un presente senza movimento non può esistere: è una realtà scomparsa, che nessuno vuole ascoltare perché è atroce, spaventa, è vergognosa. Solo con quelli come lui può capirsi, rispecchiarsi, odiarsi. O fuggire di nuovo in zone oscure «rottamato» insieme agli altri nella narrazione di un Paese che si perde dimenticando sé stessa.