Prati curati, casette a schiera, le mogliettine sorridenti che preparano deliziose cenette e crostate di benvenuto ai nuovi vicini, i maritini e padri modello che lavorano camicia e cravatta sempre impeccabili, Suburbicon è la realizzazione dei sogni dell’ America middle class alla fine degli anni Cinquanta: tutti sorridono, sono felici, si sentono protetti in quello che i depliant alla Rockwell vendono come un angolo di Paradiso. Lì vivono anche Gardner Lodge (Matt Damon), la moglie Rose che un incidente d’auto (guidava lui) ha lasciato paralitica e arrabbiata col mondo (specie con lui), il loro bimbo, Nicky, e la sorella di Rose, Margaret – entrambe Julianne Moore.

Sembrano contenti come gli altri, nonostante i malumori di Rose e la strana introversione del piccolo Nicky. Un giorno però accade qualcosa di impensabile che rompe l’incanto: a Suburbicon arrivano i Meyers, padre, madre e figlio african american e questo basta a far cadere la facciata di ipocrita gentilezza dei suoi abitanti rivelandone la grettezza e il razzismo feroce. Non li vogliono, sono un pericolo: «L’integrazione sarà possibile solo quando i negri impareranno» urlano imbestialiti. Intanto la vita dei Lodge viene sconvolta da una rapina (e pure se non c’entrano la colpa è ovviamente dei Meyers portatori di corruzione) in cui Rose rimane uccisa.

Anche se è ambientato alla fine degli anni Cinquanta, Suburbicon (nelle sale il prossimo 14 dicembre), il nuovo film da regista di George Clooney che è stato il grande protagonista della giornata di ieri in coppia con la moglie e neo mamma dei due gemelli, Amal, è una commedia nera, anzi nerissima, ha come riferimento più che intenzionale l’America di Trump. Clooney ha lavorato su una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen, e nella riscrittura insieme a Grant Heslov vi ha unito la vicenda che è stata un po’ il punto di partenza per il film, accaduta realmente a Levittown, in Pennsylvania , in quegli stessi anni, dove la comunità all’arrivo di una famiglia african american, i Meyers appunto, aveva organizzato un assalto alla casa sventolando bandiere confederate.

L’incontro tra l’umorismo di paradossi dei due fratelli e la necessità di presente di Clooney – più molti riferimenti soprattutto all’immaginario di quegli anni, da Il buio oltre la siepe a La morte corre sul fiume – diviene la lente che gli permette di trasformare il vintage in attualità. Gli onesti cittadini di Suburbicon sono troppo impegnati nella loro guerra contro i nuovi arrivati verso i quali mettono in atto ogni sorta di violenza per accorgersi del massacro tutto wasp – che è anche laddove è più evidente il tocco coeaniano – che si consuma nella villetta di una famiglia uguale alle loro per soldi e per sbarazzarsi «degli ostacoli che impediscono di vivere» come pontifica Lodge rivendicando il suo ruolo di padre a Nick – ragazzino stupendo e bravissimo Noah Jupe.

Che è il punto di vista narrativo e la figura a cui viene affidata la possibilità di un futuro – un piccolo George Clooney? Ai suoi occhi attenti non sfuggono dettagli preziosi, rimane vigile nonostante il dolore, non si fa narcotizzare e nemmeno si arrende alle imposizioni degli adulti, la zia, ruolo in cui Julianne Moore si scatena tra Vertigo, la soap, e la matrigna cattiva delle favole, e quel padre che dietro agli occhiali nasconde pensieri e fantasie da uomo medio che scandalizzerebbero la facciata di ogni sua morale.

Solitario – non sei integrato gli ripete il padre che ha deciso di mandarlo in un accademia militare – diventa amico del ragazzino african american, ci gioca a baseball e la sera i due comunicano oltre gli steccati che gli altri hanno costruito tutto intorno. I muri della segregazione razziale – siamo prima della marcia di Selma – e quelli di un presidente americano quale l’ex-tycoon e del suo populismo che non condanna i suprematisti bianchi di Charlottesville quando proprio come i bravi abitanti di Suburbicon uccidono in nome della razza. Il bimbo invece riesce a resistere al terrore più grande – l’archetipo di ogni fiaba – la sicurezza della casa violata, la figura protettiva del genitore che si rivela una minaccia e a mantenere la sua apertura verso quello che sarà qualcosa (forse) di nuovo.

Perché il pericolo, a differenza di quanto ci ripetono, non viene da fuori ma ce lo abbiamo dentro, nutrito dai sorrisi dei paternalismi che vogliono eliminare tutto quanto non si accorda alla loro visione del mondo. È semplice, forse, ma specie oggi, e in America, rivendicarlo col piacere del cinema è una dichiarazione politica molto importante.