C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa di più di quello che il mondo ormai associa ai Territori palestinesi occupati: tensioni, confische, scontri.

Una realtà che agli occhi esterni pare cristallizzata ma che è in graduale involuzione. Peggiora, sempre, con un unico punto fermo: il divario di diritti tra un popolo e un altro.

COSÌ, QUELLA CHE sembrava una confisca come un’altra, le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni, ora preoccupa. L’allargamento repentino della protesta palestinese al cuore della città santa, la Spianata delle Moschee, ha svegliato dal torpore i governi arabi, seppure quel luogo sia da settimane – da quanto è iniziato il Ramadan – epicentro delle rivendicazioni palestinesi e della conseguente repressione israeliana. A stupire di più quindi non è la reazione giordana, iraniana o tunisina, ma quella che arriva da oltre oceano.

l presidente Biden si è finora mostrato apparentemente ondivago: non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha anche fatto uno sgarbo al premier israeliano Netanyahu andando a cercare il dialogo con l’Iran, forse memore dei rapporti gelidi che Bibi ebbe con Obama.

Il suo Dipartimento di Stato, però, ieri ha usato parole che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale, ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni».

PAROLE CHE SEGUONO alla denuncia di diversi parlamentari progressisti americani, tra cui lo Squad team, le deputate Rashida Tlaib (palestinese), Ilhan Omar, Alexandra Ocasio-Cortez e Cori Bush. Giovedì hanno fatto appello all’amministrazione perché «riaffermi il diritto internazionale e chieda la fine degli sgomberi illegali israeliani di palestinesi, della demolizione di case palestinesi e del furto di terre palestinesi».

Ieri l’appello aveva già raccolto 12mila firme, mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken chiedeva di «esercitare pressione diplomatica» per impedire gli sgomberi e ribadire quel che il diritto internazionale già prevede: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione» da parte di Tel Aviv.

NEGLI STATI UNITI il dibattito si allarga anche alla base, ai movimenti. E se la reazione del gruppo femminista e pacifista Code Pink era atteso vista la sua lunga storia a fianco dei palestinesi, indicativa è quella dell’associazione liberale ebrea (che si autodefinisce pro-Israele e pro-pace) che ha bollato come propaganda la definizione che il governo israeliano dà dello scontro a Sheikh Jarrah: «Una “disputa immobiliare” è un modo fondamentalmente inaccurato per dire espulsione forzata di famiglie palestinesi dalle loro case».

Un linguaggio diretto che qualcuno non riesce proprio a usare. L’Unione europea, ad esempio, congelata su una posizione super partes che, trattandosi di un conflitto ad armi affatto pari, finisce per tradursi nella tutela del più forte: «La violenza e l’incitamento sono inaccettabili e i perpetratori di ogni parte devono essere considerati responsabili – si legge in una nota dell’Alto rappresentante agli Affari esteri, giunta nel silenzio delle altre istituzioni – L’Ue chiede alle autorità di agire subito per calmare le tensioni a Gerusalemme».

Le due parti, il mantra che accompagna da decenni l’opaca posizione di Bruxelles, spogliandola di un ruolo prima equo, poi efficace in Medio Oriente.

E se l’Onu, custode di innumerevoli risoluzioni mai rispettate da Tel Aviv, chiede a Israele di fermare lo sgombero e gli ricorda che trasferire la propria popolazione (i coloni) nel territorio occupato è un crimine, molto più pelosa è la posizione dei governi regionali.

TUTTI UNITI NEL CORO di solidarietà ai palestinesi, quasi tutti impegnati in rapporti dietro le quinte o alla luce del sole (vedi Accordo di Abramo) con Israele. Perché la pace, per molte capitali arabe che sembrano riscoprire ora l’occupazione, non passa per le aspirazioni palestinesi, ma per i lucrosi affari con gli israeliani.