Alexander Litvinenko è stato avvelenato – e ucciso – dalla Russia: ieri ha così sentenziato la Corte europea dei diritti umani a quindici anni di distanza dai fatti. L’omicidio dell’ex agente del Kgb, avvenuto a Londra nel 2006 in piena modalità Le Carré (radioattività nel tè verde, incontri in alberghi del West End, pedinamenti, ecc.) sarebbe in buona sostanza dello Stato russo, come già rilevato nel 2016 dall’analoga commissione d’inchiesta britannica, che si era spinta a indicare il mandante nello stesso Vladimir Putin.

Così hanno dunque affermato unanimemente i sette giudici della corte di Strasburgo, salvo l’imprevedibile disaccordo del giudice russo (la Russia è a sua volta membro del Consiglio d’Europa). I due presunti esecutori, Andrej Lugovoi e Dmitri Kovtun, avrebbero agito «al di là di ogni ragionevole dubbio» come emissari di Mosca, non avendo apparentemente avuto alcun movente o motivazione personale per eliminare la spia russa, che aveva diretto operazioni importanti in Cecenia prima di trasferirsi con la moglie a Londra e diventare collaboratore del servizio segreto britannico M16, oltre a denunciare vigorosamente la corruzione e il malaffare sistemici nella madrepatria (tra le «esternalità» dalla shock therapy ultra-liberista telecomandata dall’occidente e prontamente succedutesi alla corruzione e al malaffare altrettanto sistemici del regime sovietico).

I due non avrebbero potuto procurarsi altrove il letale quanto raro polonio-210, l’isotopo radioattivo usato per avvelenare l’allora 43enne agente russo nel Millennium Hotel di Londra, che soltanto un’«entità statale» avrebbe, appunto, potuto fornire. E quand’anche si fosse trattato dell’azione unilaterale di «agenti canaglia», Mosca non avrebbe potuto non sapere.

Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha prontamente liquidato l’accusa: «La Corte europea non ha certo l’autorità o le capacità tecnologiche per ottenere informazioni sulla questione». E definisce «come minimo infondate» le accuse. Mentre uno degli accusati, Lugovoi – nel frattempo opportunamente immunizzato per via parlamentare grazie al suo seggio nella Duma – rincarava la dose definendo la sentenza «ingiusta, illegale e politicamente motivata».

La vedova di Litvinenko, Marina, che aveva portato il caso in tribunale lo scorso novembre e a cui la corte ha decretato un rimborso di circa 100mila euro (l’assai più onerosa, oltre tre milioni di euro, sanzione «punitiva» nei confronti di Mosca richiesta non le è stata invece accordata), ha definito quella di ieri una grande giornata «per tutti quelli che si oppongono al regime antidemocratico russo» e ha salutato la sentenza come un passo importante verso il ridimensionamento dello strapotere putiniano, peraltro appena riconfermato – non senza polemiche e accuse di brogli – dal recentissimo esito elettorale. Mosca, si è affrettato ad affermare Peskov, non pagherà un rublo.

Gli scatti del volto emaciato eppure indomito di Litvinenko morente sono diventati un po’ il simbolo delle nuova guerra fredda fra Londra e Mosca, esplorata financo da un’opera lirica: The Life & Death of Alexander Litvinenko di Anthony Bolton, che apre tra qualche settimana. Un filone cui appartengono anche i vari «incidenti», spesso mortali, occorsi in Gran Bretagna a personalità russe accomunate dalla propria opposizione al regime di Putin.

Tra i quali va ovviamente aggiunto il caso del tentato avvelenamento (stavolta con un gas nervino, il novichok) di un altro disertore dei servizi russi: Sergej Skripal, a Salisbury, nel 2018, nel quale perse la vita una donna. A questo proposito, la polizia britannica ha fatto proprio ieri il nome di un terzo agente russo, Denis Sergeev, che coi già noti Alexander Mishkin e Anatolij Chepiga è accusato di essere responsabile della spedizione punitiva nei confronti dello stesso Skripal. I tre sono tutti agenti del servizio segreto militare russo Gru.