Il ministero dell’economia e finanze crea, il ministero dell’economia e finanze deve distruggere. Il colpo di mano che poteva far volare gli stipendi di alcuni, selezionatissimi, dirigenti pubblici è durato solo poche ore. L’emendamento al decreto aiuti bis, riformulato proprio dal Mef e accolto martedì al senato, è stato cancellato da tutte le forze politiche – le stesse che lo avevano approvato in commissione al senato, mentre in aula c’era stata qualche distinzione.

La retromarcia su richiesta e dopo plateale indignazione del governo. A indignarsi direttamente palazzo Chigi, che ha garantito che non sapeva quello che il Mef stava facendo. Il Mef ha detto di aver dato solo un «contributo tecnico». E il sottosegretario -leghista – ha solo traghettato in commissione il lavoro dei tecnici. Ma prima di tutti e più di tutti a indignarsi sarebbe stato direttamente il capo dello Stato.

Al quale l’idea che a un drappello di grand commis potesse essere consentito di sforare il tetto di 240mila euro di stipendio stabilito (ai tempi del governo Monti e allargato dal governo Renzi) per tutta la pubblica amministrazione, proprio non è andata giù. Soprattutto perché il regalone doveva essere contenuto dallo stesso provvedimento che distribuiva aiuti alle famiglie e alle imprese devastate dal caro energia. Non stava bene. E non sta più.

La commissione della camera ieri ha approvato un emendamento soppressivo dell’emendamento inserito al senato, tutti i partiti hanno votato a favore con l’identico trasporto con il quale avevano votato a favore nella commissione dell’altro ramo del parlamento alla decisione opposta, appena 48 ore prima. Brutta figura riparata, più o meno. L’emendamento originario era stato presentato dal senatore di Forza Italia Perosino.

Ma prevedeva la possibilità di sfondare il tetto di 240mila euro solo per i vertici delle forze di polizia. La riformulazione proposta dal Mef, comunicata dal sottosegretario leghista Freni, accolta da Perosino e approvata da tutti marted’ in commissione, prevedeva invece che l’aumento sarebbe spettato anche «al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ai capi di stato maggiore della difesa e di tutte le forze armate, al comandante del comando operativo di vertice interforze, al comandante generale delle capitanerie di porto, ai capi dipartimento della presidenza del consiglio dei ministri e di tutti i ministeri, al segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri, ai segretari generali dei ministeri».

Nel successivo voto in aula Fratelli d’Italia, M5S e Lega si sono astenuti, tutti gli altri hanno votato a favore tranne il gruppo di opposizione Uniti per la Costituzione e due senatori Pd, corrente Orlando, Misiani e Valente. Ma a ben vedere i 129 astenuti sarebbero più che bastati, nel caso fossero stati davvero contrari, a bocciare l’emendamento che ha avuto appena 77 voti a favore (e 14 contro). Per cui si può credere poco alle prese di distanza del minuto successivo. Prima Conte e subito dopo Salvini hanno accusato il Pd, poi tutti hanno fatto a gara a disconoscere il voto. Ed è chiaro che con tutti gli occhi sull’emendamento voluto dai 5 Stelle «salva super bonus», la sanatoria per la cessione di crediti irregolari, è stato più facile per il Mef infilare la norma più attesa dagli alti dirigenti ministeriali.

Solo che, per rimediare al fattaccio, dopo la pezza messa ieri alla camera, non basterà il ritorno a Roma, oggi, dei deputati per convertire definitivamente il decreto aiuti bis. Dovranno tornare anche i senatori per la terza lettura, martedì prossimo. Rinunciando, almeno i candidati, a uno degli ultimi quattro giorni utili della campagna elettorale. a. fab.