Il silenzio sotto cui è passato il video girato da Kevin Spacey e Tucker Carlson è il dato forse più significativo dell’atteggiamento hollywoodiano verso l’attore caduto in disgrazia, e l’ultimo sintomo di una nazione sempre più divisa in compartimenti politicamente e moralmente stagni. Della pseudo intervista effettuata dall’ex mezzobusto della Fox al vincitore di due Oscar, e protagonista di House of Cards, non vi è menzione sul «New York Times» o «Washington Post», neanche il «Los Angeles Times» ne ha parlato. Solo «Variety» scrive, per dovere di cronaca, del «bizzarro video di natale» in cui Spacey ha «attaccato l’ipocrisia delle elezioni americane e di Netfllix».

DALLE MOLTEPLICI accuse di molestie e successivamente violenze sessuali fatte suo carico nel 2017, Spacey è stato al centro di una delle più radicali rimozioni di epoca MeToo. Il suo iconico personaggio di Frank Underwood è stato rimosso da House of Cards, modificando il copione con la morte del mefistofelico presidente da lui interpretato. Ancora più rocambolesca è stata la vicenda di Tutti i soldi del mondo, il film sul rapimento di J Paul Getty, che dopo aver finito le riprese con Spacey nel ruolo del miliardario petroliere, è stato interamente rifilmato da Ridley Scott sostituendo Spacey con Christopher Plummer.

Dopo l’assoluzione l’estate scorsa nel processo per stupro, intentato da quattro attori a Londra, Spacey ha dichiarato di essere pronto a riprendere la carriera ma per ora le offerte sono giunte solo da due film indipendenti europei (fra cui L’uomo che disegnò dio di Franco Nero). Più problematica appare la riabilitazione a Hollywood, assai meno incline al perdono, anche di personaggi legalmente assolti, come dimostra il caso di Woody Allen ad esempio, i cui film, dal 2017, non vengono più distribuiti negli Stati uniti.

Durante il suo esilio (nel quale ha perso anche la direzione artistica del teatro Old Vic di Londra), Spacey ha affidato la difesa della propria reputazione ad una serie di video autoprodotti in cui ha mescolato di proposito le vicende immaginarie del suo personaggio di Frank Underwood alle sue personali, usando doppi tripli sensi in modo anche molto sagace, cominciando col primo, Let me be Frank, del 2018.

L’«intervista» di Natale rilasciata questa settimana riprende quel dispositivo senza più l’effetto sorpresa. Il dato saliente, oltre all’attacco diretto a Netflix, è però il contesto – e l’intervistatore. Tucker Carlson è stato anche lui protagonista di una pubblica caduta in disgrazia. Dagli studios della Fox News, Carlson era assurto a «giornalista» vedette con una brevettata formula di complottismo e disinvolto suprematismo confezionato con un caratteristico ghigno di sprezzo per le élites (nonostante sia egli stesso erede di una fortuna industriale). Il format che ha traghettato istanze estremiste e della Alt-right, nel linguaggio populista rivolto alla base trumpista, ha trovato enorme fortuna. Negli anni di Trump non vi è stata tesi complottista che Tucker non sposasse o amplificasse, da quella no-vax (sua l’accusa ad Anthony Fauci di aver «creato il virus») al costante battage sulla sostituzione etnica promossa dai democratici. Alla fine sono stati i suoi teoremi fake sule «elezioni rubate» a Trump a costargli il posto (e a Murdoch danni record per 700 milioni di dollari in seguito alla causa per diffamazione intentata dalla Dominion, produttrice della macchine per il voto).

LICENZIATO dall’emittente reazionaria, Carlson è stato calorosamente accolto da Elon Musk sulla sua piattaforma anti-woke. Su X (ex Twitter) Carlson conduce da giugno un talk che è diventato foro privilegiato della neo destra. Lanciato con l’annuncio di candidatura del maccartista Ron DeSantis, Tucker on X ha ospitato Donald Trump e personaggi progressivamente più estremisti come Steve Bannon e Javier Milei fino all’ultra complottista Alex Jones ed il misogino accusato di stupro Andre Tate. La vetrina di Carlson è insomma un contenitore dedicato alle provocazioni caratteristiche della nuova destra per rinfocolare le «guerre culturali» e mantenere elevato il livello di astio emozionale necessario alle fortune politiche. In questo programma Spacey si inserisce «organicamente» come vittima cancellata dai poteri costituiti.
Meno ovvia la scelta dell’attore di aggregarsi all’operazione, agganciando le proprie istanze al carro del populismo di «seconda generazione» dove recriminazioni e vittimismi di emarginati (solitamente maschi e bianchi) si mescolano al generalizzato rancore contro i media mainstream e lo Stato profondo.