Tra le storie più incredibili che riguardano il mondo della fantascienza, le vite di autrici e autori più che le loro opere, vi è senza dubbio quella relativa alle accuse che Philip K. Dick rivolse a Stanislaw Lem all’inizio degli anni ’70. In preda ad una delle sue fasi di intensa paranoia, alimentata anche dall’uso di anfetamine e altre droghe che lo avrebbero condotto in quel periodo a dirsi «invaso» da sogni, visioni e voci, lo scrittore statunitense spedì nel 1974 alcune lettere all’Fbi per denunciare come un gruppo di intellettuali marxisti di Cracovia, «anelli di una catena di comando al vertice della quale c’è Stanislaw Lem, funzionario del Partito comunista», stesse cercando di «controllare l’opinione pubblica attraverso la critica letteraria e i saggi pedagogici».

Per Dick, sotto il nome di Lem agiva in realtà un «comitato comunista» che intendeva infiltrarsi nel mondo della fantascienza americana. Questo, malgrado l’autore polacco giudicasse Dick meno negativamente del resto della science fiction Usa, cui rimproverava la scelta di aspetti «fiabeschi», o esclusivamente «meccanici», a scapito dell’indagine sull’animo umano e i temi esistenziali da lui prediletti e si fosse adoperato pochi anni prima per far tradurre nel proprio Paese Ubik, tra i romanzi più noti dello scrittore di Chicago.

AL DELIRIO COMPLOTTISTA, suggerisce il suo biografo Lawrence Sutin – cui si deve Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick (Fanucci, 1989) – l’autore di tanti capolavori, tra cui Il cacciatore di androidi che ispirò nel 1982 Ridley Scott per Blade Runner, unì il risentimento perché proprio da quell’edizione polacca non era riuscito a trarre quanto immaginava, visto che i diritti d’autore vennero pagati nella moneta locale: un epilogo deludente di cui incolpava Lem. Più in generale, nota Luigi Marinelli che ha tradotto e curato la prima edizione italiana di Summa technologiae (appena pubblicata nella collana Nautilus della Luiss University Press, pp. 432, euro 35) che riunisce riflessioni, saggi e scritti teorici di Lem usciti in Polonia nel 1964, pare che Dick fosse davvero convinto che «l’enorme cultura scientifica e la varietà di stili di “Lem” non potessero coesistere in una sola persona». Al contrario, aggiunge Marinelli, se avesse potuto leggere «la “Summa”, forse se ne sarebbe convinto».

Questo perché lo scrittore polacco, che forse anche in seguito alle pressioni di Dick fu espulso nel 1976 dalla Science Fiction and Fantasy Writers of America, di cui era stato nominato membro onorario nel 1973, coniuga in quest’opera «la fantasia e l’eleganza del narratore con la finezza del filosofo e l’esattezza dell’ingegnere», per cercare segni e linguaggi atti a decifrare il domani, riflettendo in particolare sull’impatto che avrebbe avuto sull’umanità l’enorme sviluppo tecnologico che in queste stesse pagine per molti versi anticipava e annunciava.

CARATTERIZZATE da una costante riflessione sulla dimensione etica e spirituale del progresso tecnologico, sulla civiltà tecnica, le sue potenzialità e i suoi rischi, come sul profilo complessivo dell’umanità, spesso definibile solo da uno sguardo «non umano», le opere di Lem ripropongono sovente l’eternità degli archetipi attraverso l’immaginazione fantascientifica, ponendo sempre al centro dell’indagine lo spazio emotivo in cui si muovono gli esseri umani, più che «i mondi» che sognano di poter un giorno raggiungere.

«Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi. Non sappiamo che cosa farcene di altri mondi. Uno ci basta, quello in cui sguazziamo», ammoniva del resto lo scrittore polacco che raggiunse la notorietà internazionale con il romanzo Solaris (1961) da cui nel 1972 Andrej Tarkovskij avrebbe tratto il film omonimo premiato a Cannes, dove lo psicologo Kris Kelvin inviato presso la stazione spaziale sospesa sopra l’omonimo pianeta dovrà fare prima di tutto i conti con i sentimenti umani e con il ruolo che giocano nelle nostre esistenze spesso in modo contraddittorio. Lem, scomparso nel 2006 a Cracovia a 85 anni, è all’origine di una vasta messe di opere, diverse decine tra romanzi, raccolte di racconti, saggi, dialoghi e recensioni fittizie nei quali l’incidenza della tecnologia, e delle sue innovazioni, si intreccia con le inquietudini dell’uomo, offrendo uno scenario che evoca apertamente qualcosa di molto simile alla realtà odierna.

Quanti hanno voluto inventariare questa sua capacità «profetica», hanno così sottolineato come Lem avesse più o meno annunciato l’era di google attraverso un enorme database consultabile da chiunque che compare già nel 1955 ne La nube di Magellano, la prospettiva di una perfetta simulazione, stile Matrix, ne Il congresso di futurologia del 1971 e l’orizzonte, oggi sempre più invasivo, della post-verità in La voce del padrone del 1968.

NON È PERÒ con una delle sue storie che Stanislaw Lem scelse di scrutare in modo ancor più esplicito l’orizzonte a venire. Approdato alla scrittura dopo una formazione prima medica e in seguito legata alle scienze biologiche e cibernetiche, è con i saggi della Summa technologiae – cui faranno seguito altri analoghi interventi nei decenni successivi – che lo scrittore analizza il futuro attraverso una serie di riflessioni filosofiche cui non è comunque estranea una certa dose di quel caustico umorismo che ne caratterizza l’intera opera.

Nella significativa raccolta di saggi ora proposta da Luiss, il cui titolo allude alla Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, Lem sembra prendersi in qualche modo gioco della possibilità di comporre un testo altrettanto fondativo del pensiero occidentale, pur ammettendo in premessa che il suo lavoro si prefigge di «esaminare le spine delle rose non ancora fiorite», definendo i contorni dell’intero avvenire sulla base delle nozioni del presente. «Il discorso – spiega Lem – verterà su quegli svariati aspetti della civilizzazione che si possano immaginare e dedurre a partire dalle premesse a noi note oggi, ancorché la probabilità della loro realizzazione sia debole. Fondamento delle nostre costruzioni ipotetiche saranno a loro volta le tecnologie, ossia i modi condizionati dallo stato delle conoscenze e dalle abilità sociali con cui la collettività persegue determinati fini, come pure quelli che, al momento di mettersi all’opera, nessuno poteva ancora intravedere».

Lo sguardo visionario dello scrittore di fantascienza si intreccia così alle ricerche dello scienziato e, verrebbe da aggiungere, alla sensibilità dell’umanista mai scevro da un’esame del contesto nel quale la tecnologia è messa in opera e dei poteri che la governano. Lem, che a differenza di quanto pensava Dick non era mai stato iscritto al partito comunista e aveva lasciato Leopoli, in Ucraina, dove era nato nel 1921 in una famiglia ebraica, dopo il ritorno del potere sovietico nel Paese, avrebbe infatti espresso a più riprese le proprie critiche sia nei confronti del modello capitalistico che del socialismo di Stato.

Nella Summa, l’annuncio delle novità tecnologiche a venire sembra contenere perciò sempre anche una riflessione sulle possibili conseguenze del loro utilizzo. Così, l’avvento di ciò che Lem definisce come «realtà fantomatica», oggi diremmo virtuale, creata da una macchina, spinge lo scrittore a chiedersi se «una simile accumulazione di realtà illusorie» non rischi di far sì che anche la vita reale finisca «per essere trattata come un’illusione fabbricata».

ANALOGAMENTE al «fantomaton», conia il termine di «intellettronica» per anticipare il tema dell’Intelligenza artificiale, sottolineando come le macchine potranno un giorno rivaleggiare o sorpassare l’intelligenza umana. Nell’intera opera prende forma un quesito sul senso di «onnipotenza» che può pervadere gli umani e sui possibili esiti della capacità umana di creare «interi nuovi universi», in quella che giudica con ironia come una sorta di parodia dell’evoluzione biologica che vede ora gli ingegneri al centro del processo che plasma il futuro.

Nelle conclusioni di questo testo, da lui presentato come «futurologia scettica» e definendosi come «un utopista deluso, ma non ancora disperato», Stanislaw Lem ci teneva però a ribadire come il solo punto irrinunciabile dal quale gli esseri umani potevano guardare verso l’avvenire con piena consapevolezza di sé e delle proprie capacità, era la cognizione di «sapere di non sapere». Questo, perlomeno, «fin quando saremo appena in grado di fare ipotesi su come siamo apparsi e cosa ci abbia formato così come siamo; fin quando le azioni della Natura nel mondo animato e inanimato ci riempiranno di meraviglia e rappresenteranno per noi modelli ineguagliabili, un ambito di soluzioni che, per la loro perfezione e complessità, superano qualsiasi cosa possiamo fare noi, fino ad allora la quantità delle incognite sarà maggiore delle nostre conoscenze».