Ekaterina Selenkina, russa, è regista di grande talento: pratica un cinema situato in quell’interregno tra sperimentazione e solida, consolidata autorialità che è già terreno di esercitazione per molti registi e video-artisti della sua generazione, tra cui mi viene in mente quell’Helena Wittmann passata qualche anno fa a Venezia con il suo vertiginoso Drift. Un cinema cioè che nelle sue dilatazioni spazio-temporali, nello spazio-tempo concesso alla materia cinematografica di brulicare e sedimentarsi nel quadro; nel predisporsi totalmente permeabile di fronte agli scorci, in modo che l’immagine assorba gli umori, i clamori, i colori, proprio il respiro delle cose e diventi scrittura; si rivela sempre ibrido, ancipite, sorprendente. Tra documentario e finzione narrazione e sperimentazione, Detours passato in concorso alla Settimana della Critica resterà tra le cose più belle viste in questa edizione.

CON IL PRETESTO di seguire Dennis, giovane spacciatore che usa google maps alla ricerca dei posti della città in cui depositare la droga, Detours apre delle finestre sul germinare e mormorare dei luoghi. Sono stazioni addormentate, periferie all’insegna del cemento; rave stroboscopici in cui irrompe la polizia. O, perdendo di vista il protagonista e perdendosi in periferie tutte cinematografiche, appaiono angoli metropolitani in preda al silenzio. Forse è questo il motivo per cui l’immagine è in 4:3: la necessità della cornice, della finestra, della porta attraverso cui assistere ad esempio a un’accurata perquisizione; anzi è come spiare, insinuare lo sguardo in luoghi segreti, preclusi. C’è anche questo aspetto voyeristico nel film di Selenkina che dimostra di possedere una consapevolezza teorica notevole e usa il materiale filmico con grande libertà eppure con un equilibrio inaspettato. E in effetti la cornice dei 4:3 è soprattutto quella che delimita, connota l’operazione estetica, racchiude l’immagine dichiarando la natura tutta cinematografica degli scorci: non sono cortili, stazioni, periferie, ma immagini di quei luoghi, inquadrature costituite e pullulanti di materiale cinematografico in cui l’indistinto brusio dello spazio nel tempo si sente come per la prima volta, divenendo fenomeno estetico, facendo divenire la realtà fenomeno estetico, scritto. Perciò, per un continuo sfaglio di prospettiva che riguarda questo cinema, non deve sorprendere se ad un tratto subentra nel repertorio del film anche il comico sotto forma di dissacrazione del potere soldatesco, anche più efficace di quella del Radu Jude più recente. Sei soldati in fila al centro di una piazza, dei quali, mentre gli altri stanno immobili, uno suona la chitarra elettrica e un altro, un ufficiale, canta commosso una canzonaccia d’amore.